[…] In questi silenzi in cui le cose

s’abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità. […]

Questi versi epifanici, senza tempo, di Eugenio Montale ne I Limoni (da Ossi di Seppia, 1925) racchiudono una visione realistica, ed al contempo disillusa, dell’esistenza. Tuttavia, è l’anello che non tiene che lascia presagire una potenziale scoperta di un quid che riuscirebbe a dare un senso alla vita stessa. Il segreto è tutto lì. Parrebbe semplice ed invece…

Quante volte, soprattutto negli ultimi anni, ce lo siamo chiesto? In tutti i nostri momenti di quiete apparente, di stasi imposta dalla drammatica situazione endemica, ci siamo domandati lo scopo della vita, il suo significato intrinseco?

Abbiamo ricorso a dispositivi informatici a cui affidare i nostri interrogativi, smartphones, tablet e per interagire con gli altri – alla disperata ricerca di socialità, seppur virtuale – social networks, blog, canali video. Quante informazioni, più o meno consciamente, abbiamo condiviso.

Un quantitativo enorme di dati, la cui destinazione ultima ci è forse oscura.

Siamo stati, chi attori chi spettatori, tutti, in misure diverse, partecipanti ad un evento storico.

In questo contesto, importanza fondamentale hanno assunto i macchinari tecnologico-sanitari che hanno permesso di salvare molte vite umane. Gli stessi Big Data hanno contribuito all’arginamento dell’epidemia, permettendo di mappare l’andamento del virus.

Più genericamente, è innegabile che l’utilizzo di software intelligenti, abbia il suo peso nei contesti più disparati. Basti pensare a settori quali industria, agricoltura (di precisione), automobilistica (veicoli a guida autonoma), shopping online, cyber-sicurezza, viabilità, lotta alla disinformazione, solo per citarne alcuni. Anche in presenza di eventi naturali catastrofici questi sistemi informatici rivestono ruoli di preminenza, stimando una previsione dei fenomeni e, in tema di ecologia, supportano progetti che lavorano sulle emergenze ambientali.

La loro esistenza è, ormai, imprescindibile dalla nostra.

Ne facciamo largo uso in gran parte delle attività quotidiane e rappresentano una finestra sul mondo. Perfino in scenari bellici, potrebbero costituire una risorsa, sostituendo i militari al fronte.

Talvolta, al contrario, possono creare disguidi, come nel diritto penale (il caso dei giudici-robot) o nell’istruzione, ad esempio, laddove l’assegnazione delle cattedre agli insegnanti precari è stata affidata ad algoritmi da parte della Pubblica Amministrazione, così comportando una deresponsabilizzazione del decisore pubblico, nonostante fosse stata presentata come un’eccellenza nel segno della digitalizzazione.

Tuttavia, sono valenze esclusivamente positive quelle che hanno?

Servono loro a noi o sono loro che si servono di noi?

Quella di intelligenza artificiale è, ad onor del vero, un’espressione generica, vagamente imprecisa, che tuttavia racchiude una moltitudine di significati, risuonando anche un po’ angosciante: «l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività», stando alla definizione riportata sul sito ufficiale del Parlamento europeo. E, in riferimento alla sua sfera d’utilizzo: «L’intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, e agire verso un obiettivo specifico». Tutto ciò che è in grado di fare un essere umano.

In altre parole, si sta implicitamente contemplando la possibilità che, in un futuro distopico, gli stessi soppianteranno la ragion d’essere degli individui?

Accadrà realmente questo? Non possiamo saperlo, eppure, a ben guardare, i presupposti ci sono già. Osserviamo la nostra società: nella crisi valoriale e in assenza di punti di riferimento, tutto appare labile.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha delineato abilmente i caratteri di questa modernità liquida, sostenendo che lo stato d’incertezza che mina le collettività derivi dalla mercificazione degli individui stessi e dei loro bisogni, nell’intento di conformarsi a schemi comuni, massificati, pena l’esclusione sociale. Ciò, inevitabilmente, ha ripercussioni nella sfera personale ed interpersonale dei singoli. Sempre più distanti tra noi, oscilliamo tra il soggettivismo imperante e il consumismo esasperato, volto alla ricerca di uno status symbol che appaghi l’immagine che vogliamo trasmettere di noi, un intimo desiderio di pubblica affermazione.

In quest’impietosa fotografia, dove risiederebbe la differenza con un automa?

Il rischio che le macchine possano subentrare agli esseri umani appare davvero plausibile.

La validità di quest’affermazione potrebbe esser ascritta ad un esperimento condotto da Alan Turing, una delle menti matematiche più brillanti del XX secolo. Il test di Turing (1950), proposto sulla rivista «Mind», verteva sul confronto tra l’uomo e il congegno informatico.

In sostanza, veniva a porsi l’interrogativo se un calcolatore, correttamente programmato, potesse essere dotato di un intelletto distinguibile o meno da quello antropico. A seconda degli esiti, veniva a classificarsi in forte o debole: forte, se l’elaboratore non si limitava ad essere mero esecutore di un insieme di calcoli forniti dal cervello umano ma capace di produrre e risolvere esso stesso gli algoritmi atti alla risoluzione di un problema; debole se, invece, veniva riscontrata una sola capacità di simulazione dei processi cognitivi umani.

È indubbio il contributo teorico che Turing abbia apportato all’Informatica – altresì rivoluzionario – dimostrando che è una disciplina dal potenziale altissimo. Tuttavia, molto dipende dall’uso che se ne fa, ed è per questo che l’uomo è più che complementare: è essenziale.

Inoltre, per quanto possa essere straordinaria la capacità cognitiva di un processore, difficilmente potrà emulare la peculiarità sensoriale di un individuo, il nutrire sentimenti.

A sostegno di questa tesi, bisognerebbe compiere un ulteriore, enorme, balzo a ritroso nel tempo, menzionando il filosofo francese René Descartes, meglio noto come Cartesio.

«Io credo che il corpo sia come una statua o una macchina fatta di terra che Dio forma rendendola simile a noi. Conferendogli la figura esterna di tutte le nostre membra e ponendo all’interno tutti i pezzi necessari al suo funzionamento. Essa imita tutte le nostre funzioni materiali e dipende dalla disposizione degli organi. Un corpo con dei meccanismi che rendono l’uomo simile alla macchina» scrive nel suo appassionato De homine (1662).

È questa la sostanziale differenza: una persona è dotata di pensiero, ragione, coscienza.

Cartesio affronta, in chiave razionalista, la natura umana, definendo l’individuo un insieme di res cogitans e res extensa, un’entità che condensa, al suo interno, anima e corpo, trovando compimento perfetto all’interno della ghiandola pineale, o epìfisi.

Scritti formulati più di trecentocinquanta anni fa, testimoni di grande profondità di pensiero ed, incredibilmente, profetici.

Ancor prima di Cartesio, intuizioni di studiosi illuminati quali Mikołaj Kopernik, Galileo Galilei, Isaac Newton, Johannes Kepler furono determinanti per l’affermazione della Scienza moderna. Quante battaglie ideologiche e cruciali, talvolta conquistate con il sacrificio della vita stessa.

Si impone ora il dovere morale di porre un’onesta riflessione su quanto concerne la società contemporanea: saranno in grado le nostre generazioni, attuali e future, di recare importanti contributi al miglioramento della qualità della vita, attraverso l’ausilio di sofisticate tecnologie?

Sugli echi degli illustri pensatori del passato, giungeranno a comprendere la natura spirituale ed intuitiva dell’esistenza, senza per questo arrivare all’autodistruzione?