La scuola italiana ha vissuto, dagli anni ’70, profondi cambiamenti sociali e culturali che ne hanno cambiato, in modo irreversibile, il volto. La sempre maggiore richiesta di istruzione da parte delle famiglie e la crescita esponenziale del numero degli studenti, alcune riforme miliari come la nascita della scuola media unica (1962), la liberalizzazione degli accessi alle università (1969), l’entrata in vigore dei Decreti Delegati (1974), avevano innescato sul tessuto della società italiana esigenze e bisogni non più eludibili. Anche il ruolo tradizionale dell’insegnante era mutato: la figura “gentiliana” di libero pensatore, la cui formazione universitaria e la vasta cultura ne garantivano, tout court, il prestigio sociale agli occhi delle famiglie e degli studenti, si ritrova negli anni a fare i conti con le nuove istanze di partecipazione di giovani che contestano la cultura tradizionale e i metodi obsoleti di insegnamento.

Gli anni ’80 si aprono nel segno di una grande spinta innovativa per la scuola; il nuovo reclutamento del personale docente che avvia il meccanismo di selezione concorsuale, più volte previsto nel passato ma sempre scavalcato dalle assunzioni ope legis, sembra presagire la nascita di un modello di insegnante in possesso di strumenti didattici adeguati al percorso di crescita e ai bisogni, non solo culturali, ma realmente inclusivi, di tutti gli studenti. Sono anni cruciali, in cui molto si sarebbe potuto fare per affrontare il tema della formazione dei docenti, anche se rimaneva ancora forte la convinzione che una buona preparazione disciplinare (oltre che una forte consapevolezza del ruolo professionale) fosse sufficiente a trasmettere agli studenti il sapere appreso all’università. Ciò nonostante, il nuovo sistema dà i suoi frutti, con l’arrivo di numerosi docenti appena usciti dal percorso universitario, motivati e attenti alle esigenze di una scuola in grado di soddisfare i bisogni di una società in continua evoluzione.

La crescente femminilizzazione del corpo docente, in misura maggiore nelle scuole dell’infanzia ma nel tempo anche negli altri ordini, dovuta alle modeste retribuzioni e alla convinzione che un lavoro “di cura” potesse essere non solo più adatto al genere femminile ma maggiormente conciliante con il carico dei lavori familiari e domestici, ha reso, negli anni, poco appetibile l’insegnamento, inteso più come secondo lavoro di ripiego all’interno di una famiglia e ha contribuito enormemente a calmierare gli stipendi dei docenti; un “patto scellerato” che può essere considerato una delle cause del declino di prestigio sociale della figura dell’insegnante oltre che uno degli stereotipi che maggiormente ha condizionato le scelte universitarie (e di lavoro conseguentemente) delle donne.

Il decennio degli anni ’90 riceve una spinta propulsiva dall’Autonomia scolastica, introdotta dalla Legge 59/1997 (riforma Bassanini), un processo che proseguirà con le riforme degli anni successivi che trasformeranno l’istituzione scolastica in soggetto giuridico. La variegata offerta progettuale messa in campo e che si inserisce nel Piano dell’Offerta Formativa (POF) delle scuole, apre uno scenario di innovative esperienze tanto che le opportunità di formazione in servizio per gli insegnanti si moltiplicano, talvolta con dubbi effetti sul piano dei risultati.

Ma la possibilità per le scuole di gestire in maniera autonoma i fondi stanziati dal Ministero e di adeguare gli interventi formativi al contesto di riferimento e alle differenti esigenze dei propri alunni,  se da una parte responsabilizza la singola istituzione scolastica (e i docenti che ne fanno parte) sulle scelte dei percorsi più adatti per il raggiungimento degli obiettivi didattico-educativi e sugli strumenti in grado di realizzarli, apre le porte a quel vulnus che rappresenta, ancora oggi, uno dei nodi inestricabili dell’aspetto contrattuale della professione docente: il lavoro straordinario, non retribuito, degli insegnanti, un carico di ore sensibilmente aumentato negli anni, dalla preparazione delle lezioni, alla correzione delle verifiche, alla formazione, svolto al di fuori dei normali impegni didattici e la cui reale quantificazione porterebbe ad un aumento sostanziale delle retribuzioni.

Un tentativo di differenziare la carriera dei docenti non legandola esclusivamente all’anzianità di servizio (tema ancora oggi non risolto), viene previsto dal contratto di lavoro del quadriennio 1994-97, attraverso un sistema di progressione tra fasce stipendiali subordinato alla partecipazione ad almeno 100 ore di aggiornamento.

L’obiettivo di garantire a tutto il personale opportunità di formazione non sempre trovò riscontro nella programmazione di attività in grado di soddisfare i criteri di qualità e i bisogni reali dei docenti. L’impatto del contratto su una scuola che muoveva i primi passi verso l’autonomia e non ancora dotata di strumenti valutativi in grado di recepire le novità, fu direttamente proporzionale alla velocità con cui tale sistema venne cancellato, senza alcuna seria riflessione sulle motivazioni del fallimento. Una “meteora” nel panorama scolastico, oltre che un tour de force di impegni aggiuntivi per i docenti, nel tentativo di raggiungere le tanto agognate ore. Dai successivi contratti la partecipazione ad attività di formazione e aggiornamento ritorna ad essere solo un diritto, evitando così il pagamento di un eventuale straordinario. Anche la proposta di riforma del Ministro Berlinguer, recepita dal contratto 1998-2001, che prevedeva la possibilità per una esigua quota di docenti di accedere ad un trattamento economico accessorio vincolato al superamento di un concorso selettivo per prove e titoli, fu duramente contestata dagli stessi docenti, tanto da costringere il Ministro al ritiro del “concorsone” e ad un repentino cambio di rotta. Ma con la serenità di giudizio che la lontananza può facilitare, appare chiaro come la protesta abbia aperto l’annoso dibattito sul sistema di valutazione dei docenti e sulle modalità e l’efficacia dei risultati anche in termini di carriera. Il “rifiuto di sottoporsi a valutazione”, come allora venne semplicisticamente definita la protesta, fu in realtà il primo tentativo di rivendicare stipendi adeguati al ruolo professionale di tutti i docenti e non solo di una minoranza le cui competenze didattiche, oltre che disciplinari, difficilmente potevano essere valutate attraverso dei test.

Sarà la Legge 107 del 2015, la cosiddetta “Buona scuola”, che trasformerà la formazione in “obbligatoria, permanente e strutturale”, creando un vero e proprio pasticcio legislativo, ai limiti della incostituzionalità. Le ore di formazione, se obbligatorie, andrebbero infatti inserite all’interno delle attività funzionali all’insegnamento, superate le quali scatta necessariamente il diritto ad una retribuzione supplementare per il docente. La questione potrebbe apparire un semplice cavillo contrattuale, ma così non è. Il tema della formazione si intreccia fortemente con quello della valutazione degli insegnanti, di una carriera professionale legata alla sola anzianità anagrafica e, contestualmente, agli stipendi degli insegnanti italiani tuttora tra i più bassi in Europa.

Di fatto, poco è cambiato da allora nel panorama fin qui tracciato. Le modeste risorse a disposizione delle scuole non possono di certo considerarsi sufficienti a soddisfare i bisogni formativi e il carico di lavoro sommerso e mai riconosciuto dei docenti, sempre più pressati da richieste di innovazione metodologica (basti pensare agli strumenti tecnologici per la didattica digitale). L’aggiornamento rimane ancora un atto volontario e personale, senza alcun riconoscimento professionale oltre che economico, poco valorizzato o semplicemente imposto dai Dirigenti, un “diritto-dovere” che molti docenti non esercitano affatto.

La scuola italiana è dunque ad un bivio. Il prossimo contratto, di cui finalmente si inizia a discutere, dovrà necessariamente normare questo aspetto, riconoscendo le ore dedicate alla formazione, nella carriera di un insegnate, come strutturali, legate ad una attività continua, ordinaria e ad un incremento della retribuzione che, come previsto dall’art. 36 della Costituzione, deve necessariamente corrispondere ad un aumento della prestazione professionale. Dovrà far emergere quella sacca di “lavoro nero”, che contribuisce a rendere un docente competente nella sua professione e nel lavoro con i propri studenti, al di là e oltre gli adempimenti burocratici richiesti.  Da questo punto di vista, le esigue risorse messe in campo per il rinnovo del contratto, scaduto ormai da quasi un triennio, mi pare continuino a perpetrare le stesse logiche fin qui analizzate e a non affrontare il problema del lavoro straordinario dei docenti.

Non si tratta di una rivendicazione meramente sindacale, sul nuovo contratto si giocherà il futuro della scuola italiana, del riconoscimento della funzione intellettuale dei docenti, della motivazione nell’affrontare una professione sempre più impegnativa. Solo dopo aver fatto questo sarà possibile riaprire una seria discussione sulla valutazione dell’intero sistema scolastico e non solo dei docenti.