La recente sentenza della Corte d’Appello di Palermo, che ha mandato assolti gli uomini delle istituzioni accusati di avere trattato con la mafia, ha scatenato, come era facilmente prevedibile, la reazione “da stadio” di tutte le tifoserie politiche. La destra brinda alla integrità degli uomini dello Stato e inveisce contro il precedente “errore” delle condanne di primo grado. La sinistra istituzionale mastica amaro, mentre quella di movimento o impegnata concretamente nelle associazioni antimafia grida allo scandalo.

In realtà è un vecchio vizio della politica di casa nostra quello di appiattire ogni verità storica all’esito delle sentenze dei tribunali, con l’indubbio vantaggio di potere sfruttare, a fini propagandistici, quella inevitabile semplificazione valoriale che ogni sentenza porta sempre con sé: o “colpevoli” o “innocenti”! Pronti ad esaltare la correttezza del magistrato o a denunciarne la politicizzazione (che sia detto per inciso è spesso reale, ma che ovviamente viene tirata fuori quando conviene alla propria parte).

Questa pratica opportunista della politica è ulteriormente aggravata da alcune criticità che, a mio modesto avviso, contengono a volte le sentenze. Premetto che non ho nessuna intenzione di criticare, anche per mancanza di competenze specifiche, il nostro sistema giudiziario. Dico soltanto, prima di tutto da cittadino, che resto spesso esterrefatto dalla disinvoltura di quelle giravolte che portano, nei vari gradi di giudizio, a ribaltare le sentenze, passando da severissime condanne alla assoluzione e viceversa.

Lasciando per me i miei dubbi, resta il fatto, questo si incontrovertibile, che la magistratura ha un compito molto specifico: quello di accertare responsabilità, che sono intanto rigorosamente personali, e che ineriscono agli eventuali aspetti penali dei fatti contestati, senza alcuna altra considerazione che riguardi l’etica, la politica, o altro. Ricostruire una verità storica è cosa diversa, e per molti versi, assai più complessa. Si tratta di riconsiderare fatti, circostanze, significati, relazioni e quant’altro che esula dalla semplice rilevanza penale di cui si occupa il giudice. È sulla base di tale complessità, che dovrebbe essere il più possibile basata su rilevanze oggettive, che la politica dovrebbe esprimere “il diritto” al proprio giudizio, che è sempre e per definizione “di parte”, ma che mai dovrebbe venire meno a questa correttezza dei riferimenti da considerare.

È possibile che certi mali della politica, almeno di quella mainstream, siano strutturalmente legati al dominio della “vuota immagine” e della pura “chiacchera” da social, di questa epoca neoliberista e post-democratica. Ma non è questo il significato che ci siamo prefissati di approfondire in questo luogo.

Quello che invece ci interessa sottolineare è che questo disimpegno opportunistico della politica ha nel nostro paese una lunga storia, che si può fare risalire agli anni settanta. Al tempo, cioè, in cui forti tensioni sociali e vari movimenti di lotta salariale, politica e di liberazione attraversavano il paese da ormai un decennio, con forti propensioni antagoniste che arrivavano in alcuni casi a pratiche di illegalità. Di fronte a tutto questo, il mondo politico, mostrando tutta la sua impotenza, non pensò a nulla di meglio che delegare la magistratura ad un ruolo di “supplenza”. Per varie ragioni, che qui non ci interessano, la cosa andò a buon fine, ma con la conseguenza che tutta la complessità della storia di quegli anni è stata banalizzata nella sola vittoria dello Stato contro la lotta armata, e che ancora oggi di quel periodo non c’è altra verità “ufficiale” se non quella scritta dalle sentenze.

Questo anomalo rapporto tra politica e magistratura si è poi consolidato negli anni seguenti come effetto collaterale dello straordinario impegno di magistrati come Falcone, Borsellino ma anche tanti altri, impegnati nella lotta alla mafia, a fronte di una politica, che, a parte alcune significative eccezioni, quando non era connivente, era quanto meno assente. Col risultato, anche in questo caso, che la storia della mafia è stata scritta soprattutto dal maxi processo, lasciando zone d’ombra, almeno rispetto al passato, sui rapporti tra mafia e politica e tra mafia e società, che non necessariamente dovevano avere rilevanza penale.

In conclusione diremo che la vicenda della trattativa tra mafia e Stato è da considerare tutt’altro che chiusa. A parte l’ovvia considerazione che anche sul piano giudiziario c’è pur sempre da attendere un eventuale terzo grado di giudizio che potrebbe ancora rimettere in discussione ogni cosa. Ma in ogni caso restano da considerare, anche per sgombrare il campo da ogni dubbio, tutti quegli eventuali aspetti che potrebbero riguardare, per esempio, relazioni politiche anomale, pratiche di poca correttezza istituzionale, decisioni di dubbia valenza etica.

A questo proposito una sorta di invito ad andare avanti ce lo offre la stessa sentenza di assoluzione. Gli imputati, infatti, come sottolineato da molti, sono stati dichiarati non colpevoli non perché “il fatto non sussiste” ma perché “non costituisce reato”, il che è come dire che comunque “il fatto è avvenuto”. Che poi non abbia giuridicamente rilevanza penale non significa certo che non possa avere altre, e ugualmente importanti, “rilevanze” da conoscere e attentamente valutare.