Seperti dendam, rindu harus dibayar tuntas (Vengeance is mine, all others pay cash – La vendetta è mia, tutti gli altri pagano in contanti) del regista indonesiano Edwin è risultato il vincitore del Pardo d’oro. Il regista ha presentato il film con queste parole: “Perché mai sprechiamo il tempo ossessionati dall’impotenza, mentre intorno a noi la violenza dilaga? Occorre mettere un freno alla cultura machista”.

Ajo Kawir è un combattente che non ha paura di nessuno, nemmeno della morte ed è spinto a ricercare sempre nuove e più pericolose sfide per sfuggire alla frustrazione che gli deriva dalla sua impotenza, un segreto che vorrebbe tenere per sé, ma che è risaputo nella comunità nella quale vive. Quando Ajo Kawir incontra Iteung, una combattente forte e coraggiosa che non riesce a sconfiggere, se ne innamora perdutamente. Il tentativo di costruire una vita comune deve fare i conti con i signorotti locali, ex militari che gestiscono la criminalità organizzata e che non perdono occasione per assicurarsi le loro prestazioni. In un continuo perdersi e ritrovarsi i due protagonisti devono fare i conti con la loro infanzia e con le violenze subite. Il film, che prende spunto da un romanzo di Ekia Kurnawan, personaggio importante nella letteratura locale, è ambientato in Indonesia negli anni ’80 sotto il regime di Suharto, rimasto al potere fino al 1998; anni che coincidono con l’infanzia del regista, nato nel 1978.  Un’opera di forte denuncia della cultura del “machismo, uno strumento che il potere utilizza per indottrinare la gente facendo leva sul suo senso di ingiustizia. “Ma in una direzione che non costituisce un pericolo per chi governa” ha dichiarato il regista in un’intervista a Variety.

“Zeros and ones” di Abel Ferrara ha vinto il Pardo per la miglior regia, un’attribuzione facilmente prevedibile, considerato il risalto mediatico attribuito al famoso regista ancora prima della visione del film. “Un caotico paesaggio urbano fatto di strade noir che sembra rievocare la Parigi al termine dell’occupazione, ma che è invece ambientato nella postmoderna Roma di oggi, antica e immutabile” ha dichiarato il regista. In effetti, le riprese delle strade della città eterna vuote a causa del periodo pandemico nel quale il film è stato girato permettono inquadrature di Roma di grande effetto, che i nostri quotidiani hanno esaltato (a mio modesto parere oltre ogni limite) nelle loro recensioni. Il regista colloca prima e dopo l’inizio del film due brevi interventi del protagonista Ethan Hawke rivolti direttamente al pubblico. Nel primo, con l’obiettivo dichiarato di pubblicizzare la pellicola, l’attore spiega che per accettare il ruolo gli è stato sufficiente l’onore di poter lavorare con Abel Ferrara; nel secondo, per tranquillizzare gli spettatori sul fatto che neanche lui, che del film è il protagonista, ha ben compreso la trama, ma che il film è comunque molto bello. Ed in effetti una trama precisa non c’è; molte sono le suggestioni, le piste di ricerca indicate, le frasi ad effetto che rimandano ora alla pandemia e al lockdown –  “Siamo tutti negativi” –  ora a temi più eterni.  “Gesù era solo un altro soldato” afferma il protagonista, mentre si muove tra tutti gli ingredienti di una spy story: servizi segreti, spie russe, possibili attentati in Vaticano, un fratello arrestato forse perché comunista o anarchico ecc. Ci sono il potere (non identificabile), la religione cattolica, il buio e la solitudine amplificata dal lockdown e un continuo riproporsi di schermi che rimbalzano immagini di luoghi fra loro lontani, da dove soggetti diversi intervengono nelle realtà filmica seguendo logiche proprie e non facilmente comprensibili. Un film probabilmente destinato a ricevere dal pubblico pareri e giudizi anche fra loro fortemente contrastanti.

“Jiao ma tang hui” (A New Old Play) del regista cinese, di Hong Kong Qiu Jiongjiong, ha vinto il Premio speciale della giuria. Un attore/clown di un’importante compagnia dell’opera di Sichuan muore e viene accolto nell’aldilà; attraverso i suoi ricordi si ripercorre, in una compenetrazione e sovrapposizione tra il mondo dei vivi e dei fantasmi, la storia della Cina del XX secolo: “Un diario di viaggio cantato da menestrelli che vagabondano in questo mondo e in quello successivo”, così il regista ha definito la sua opera. Un film gioioso e pieno di energia, che esalta il ruolo dionisiaco dell’arte; un’opera senza dubbio estremamente raffinata, che ripropone scenografie tipiche del teatro cinese classico con evidenti richiami alla pittura su seta. Un’opera nella quale ha poco senso ricercare la correttezza o la condivisione di un giudizio politico sulle vicende attraversate, a cominciare dalla rivoluzione e dalla rivoluzione culturale, eventi sui quali ognuno ha e mantiene il proprio giudizio, ma che va invece apprezzata ed eventualmente criticata per l’intreccio tra arti, culture e fantasie che propone.