Jovo Divjak, generale dell’armata popolare jugoslava, è morto a Sarajevo l’8 aprile scorso, all’età di 84 anni.
Aveva difeso la città di Sarajevo durante l’assedio. Di origine serba, Divjak si schierò subito dalla parte bosniaca, diventando il numero due dell’Armija di Sarajevo.
“Queste sono le persone con cui vivo, i miei vicini di casa, non farò la guerra contro di loro”, proclamò. Era di famiglia cristiano ortodossa.
Quello di Sarajevo è stato l’assedio più lungo di una capitale in epoca moderna (1425 giorni) con un bilancio di quasi 14mila morti, tra cui circa 5.500 civili, inclusi moltissimi bambini.
Valorizzò il ruolo delle donne, tanto che amava ripetere: “Sono le donne che hanno salvato Sarajevo”.
Percorreva le trincee, tranquillizzava i feriti, abbracciava i genitori che avevano perso i loro figli, si procurava le medicine che mancavano alla città assediata, protestava contro i maltrattamenti perpetrati sulla base della nazionalità delle persone. Avrebbe voluto indagare su cosa muove taluni ad uccidere.
Era un intellettuale, appassionato di teatro, balletto, poesia.
Il 3 marzo 2011, su mandato del governo serbo, è stato fermato dalla polizia austriaca a Vienna mentre si stava recando in Italia per partecipare a un incontro indetto dall’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti e dall’associazione bolognese ‘Percorsi di Pace’ . Il susseguente processo tenutosi nella capitale austriaca accertò la totale infondatezza delle accuse.
Fondò l’associazione Ogbh per accogliere orfani, bambini poveri, dedicandosi dal 1994 a quest’opera di solidarietà.
La gente bosniaca lo ricorda come un eroe. Sarajevo non lo ha mai dimenticato.