Questo articolo redatto da Maria Concetta Sala per la nostra Agenzia riprende parzialmente il testo dell’autrice che sarà pubblicato in versione integrale nella rivista palermitana «Segno» (n. 422, febbraio-marzo 2021)

Nel corso di una pandemia che fa traballare, non è semplice applicarsi a questioni inerenti al rapporto tra spazio pubblico e appartenenza a una comunità (di lingua/e, di costumi, di territori) né affrontare le trappole causate dallo sgretolamento del legame di fiducia tra istituzioni e cittadinanza, con ricadute negative sull’equilibrio tra partecipazione attiva e rappresentanza politica e tra proclamazione di libertà civili fondamentali e possibilità di esercitarle effettivamente nella vita concreta. Si tratta  in altri termini di provare a ragionare sull’in comune, lo spazio delle relazioni, sulla salvaguardia della nostra democrazia, anch’essa messa a dura prova da una serie di fatti che hanno tutta l’apparenza di spingere in vicoli ciechi e attraverso i quali suona più di un campanello d’allarme. Per ragionare, in un contesto che sembra giustificare la fuga dalla riflessione con le assillanti, ossessive, monotone condizioni di urgenza, è necessario tuttavia reperire nella nostra interiorità il coraggio di pensare e fuori di noi il coraggio di agire.

C’è un altro aspetto da non sottovalutare: l’inoculazione nella coscienza e nell’anima di una mistura velenosa di frasi smozzicate, di stereotipi che sanno di stantìo, di parole rudi e aggressive i cui effetti malefici sono amplificati dall’uso dei social che inaridisce il cuore di tutti – e non posso non pensare con tristezza alle recenti ingiurie nei confronti della senatrice Liliana Segre, un’accorta e mite dispensatrice con la sua grazia di una testimonianza che è un inno alla vita, alla salvaguardia della memoria, all’impegno. Questa deriva del linguaggio, per  nostra disgrazia pressoché inarrestabile negli ultimi anni, corrode la potenza creativa della lingua materna, stravolge il modo di comunicare e impianta in un sociale con venature asfittiche uno “stile dell’orrore” la cui brutalità offende e spaventa perché richiama tempi bui e tragedie di un recente passato. Si legga a questo proposito l’opera del 1947 di Viktor Klemperer, La lingua del Terzo Reich.Taccuino di un filologo (Firenze,  Giuntina, 1998).

A volte i fatti nudi e crudi riescono a dire verità che appaiono troppo scomode e che si rivelano quindi impercettibili. Se rifiutiamo le menzogne e connettiamo questi fatti recenti, risulterà allora chiaro che c’è un filo che lega l’annosa vicenda della Valsusa alla devastazione dei paesaggi naturali a Cortina in vista di futuri eventi e alle combustioni di rifiuti illegali nella Terra dei fuochi. C’è un filo che lega la sottrazione delle coperte ai senzatetto per gettarle nei cassonetti alla morte degli sventurati nelle medesime città. C’è un filo che lega l’assassinio delle donne da parte di ex mariti, fidanzati e amanti incapaci di affrontare la perdita di un potere tracotante e di un arbitrio non più riconosciuti al livore e al rancore sessisti e misogini, razzisti e antisemiti, che si esprimono attraverso i social. C’è un filo che lega la detenzione di Dana Lauriola alle perquisizioni condotte dagli apparati dello Stato nelle abitazioni delle/dei volontari determinati nel voler curare e salvare vite umane, fra l’altro in tempi di pandemia, che rendono ancora più gravi gli squilibri e le disuguaglianze sociali, di cui sarebbe sì  urgente occuparsi. C’è un filo che lega il  gesto di un religioso che si china sugli ultimi a Como al gesto civico di un cittadino che paga la multa inflitta a un senzatetto che non ha saputo spiegare la causa dell’allontanamento da casa sua. C’è un filo che lega il pensiero dolente di papa Francesco nei confronti di Edwin abbandonato da tutti al trasalimento e allo shock che si provano nei confronti di Mostafà morto in estrema solitudine. C’è un filo che lega il gesto politico di donne e uomini che disinfettano i piedi di esseri umani calpestati e feriti all’azione politica di chi in mare non vede migranti ma donne, uomini e bambini che stanno per affogare.

Il fatto è che la nostra civiltà si avvicina sempre più alla realizzazione di un regno della quantità e della dismisura in cui la sovranità è affidata a illusioni, a miti, idoli e mostri; ma se pensiamo e se esercitiamo il pensiero non possiamo non scorgere fra le molteplici evidenze che il profitto capitalistico e il benessere materiale di cui ciascuno/a di noi benestanti gode derivano – attraverso trivellazioni e estrazione di tutto l’estraibile in ogni luogo e a man bassa nei paesi poveri del mondo – dallo sfruttamento senza freni delle risorse non illimitate della Terra e da uno sfruttamento irrefrenato di donne e uomini, qui ed ora e, ancor di più, altrove  – che cerca di rapinarne persino l’anima. La nostra civiltà si mostra protesa a distruggere piuttosto che a costruire basi materiali e a dare risposte ai bisogni del corpo e dell’anima in vista di una maggiore giustizia, ovvero un maggiore equilibrio nei diversi ambiti del vivere. Eppure essa contiene germi di una liberazione possibile dal modello di sviluppo economico imperante e  antidoti alla subordinazione dell’individuo al collettivo e all’opera di disintegrazione dell’umano. Per invertire la rotta e orientarsi verso una civiltà tale da non precludere la sacralità della vita e da mettere al centro, nella misura del possibile, la qualità, il limite e l’equilibrio, occorre però ri-pensare la condizione materiale e simbolica del vivere rinnovando il rapporto di fiducia nei confronti della natura e della Terra e ri-considerare la condizione umana alla luce della nozione di fragilità e vulnerabilità, insite in ogni vivente, e delle nozioni di pluralità e di singolarità, fondative del nostro convivere.

Non è degno di uno Stato democratico ridurre a una questione di ordine pubblico sia la protesta in Val di Susa (come è avvenuto nel caso di Nicoletta Dosio, insegnante in pensione, oggi libera dopo aver scontato la pena, e in quello di Dana Lauriola e di altre/i Notav tuttora in galera), sia le manifestazioni di giovani che lottano in nome dell’antifascismo, dell’equità sociale e della salvaguardia dell’ambiente, sia l’opera politica delle donne e degli uomini, come Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi e Luca Casarini, e dei tantissimi/e senza nome che con le loro associazioni o singolarmente salvano le/i migranti in mare o si prendono cura delle loro ferite sulla terraferma, così come di quante/i non abbandonano i senzatetto e si  preoccupano più dell’umanità sofferente sul ciglio di una strada che del decoro cittadino.  Nel contesto politico odierno le misure dirette a intimidire e a reprimere per far desistere dall’esprimere la libertà di salvaguardare, di dissentire, di curare non solo disorientano le giovani generazioni così tanto sacrificate e lasciate allo sbando nel dramma odierno e che nonostante tutto continuano a impegnarsi nella salvaguardia degli ecosistemi e dei territori e a lottare per un assetto sociale futuro meno ingiusto, ma accrescono altresì  il divario e la distanza tra istituzioni, rappresentanti politici e comuni cittadine/i, contribuendo in tal modo a corrodere e logorare i legami comunitari già così fragili. Non ci può essere vitalità propositiva né felicità generativa in una democrazia che non dia prova continua di rispettare la dignità umana di chiunque e in ogni circostanza. È il pensiero non omologato, non uniforme, non conforme, non monocorde, non incalzato dalle urgenze, il sale della democrazia e tutte le volte che il pensiero è inesistente o viene calpestato, si addensano nubi oscure sull’umanità dell’umano. È un rischio terribile di cui vale la pena, per noi oggi e per le generazioni future, di essere lucidamente coscienti, al fine di non incorrere in disastri tristemente simili a quelli del passato.