Sembra oggi sia più difficile di un tempo mettere in discussione la parola “sviluppo”. Un tempo era possibile avere convegni dal titolo “Sviluppo? adesso basta, a tutto c’è un limite!” (convegno del 1990 che vide la presenza di Langer, Sachs e altri)*. Oggi un incontro con titolo simile sarebbe impensabile.

La parola oggi viene utilizzata come un feticcio, senza mai interrogarsi sul suo significato e sulle sue implicazioni.

Provo a fare un paio di considerazioni. Tale termine è mutuato dalla biologia, e riguarda una fase limitata della vita degli individui o delle comunità biologiche eppure noi oggi a livello sociale ed economico lo intendiamo come un processo illimitato e perpetuo, di durata indefinita e auspicabilmente perenne.

In più occasioni a questa considerazione mi è stato obiettato che la parola sviluppo in ambito socio-economico la dobbiamo intendere come sinonimo di “evoluzione”. Eppure credo che difficilmente avremmo un “Ministero della Evoluzione Economica” o un “Programma delle Nazioni Unite per l’evoluzione” perché la scelta delle parole ha delle implicazioni e alcune di esse sono presenti nel concetto di Sviluppo e non nel concetto di evoluzione. Inoltre se chiamassimo i paesi “in via di sviluppo”, paesi “in via di evoluzione” o i “sottosviluppati” “sottoevoluti” questo avrebbe una accezione razzista e denigratoria più di quanto tra le righe non sia presente nella dicitura attuale.

Il fatto che esistano paesi considerati “sviluppati” ed altri “in via di sviluppo” fa tornare con la mente al significato primigenio, biologico del termine: un processo con una sua realizzazione in una fase e un suo compimento in un’altra.

Secondo quest’uso del termine chi è già sviluppato non dovrebbe mirare a ulteriore sviluppo, proprio come un individuo che ha concluso l’adolescenza ed è entrato nell’età adulta non ambisce a crescere ulteriormente e a rivivere in modo indefinito quanto vissuto biologicamente nell’adolescenza. Chi si trovasse in una condizione “in via di sviluppo” dovrebbe correttamente cercare di compiere e completare tale processo, proprio come un preadolescente vuole crescere e divenire adulto. Insomma se ciò che in natura chiamiamo sviluppo è qualcosa che ha un suo tempo limitato, lo sviluppo è per sua natura insostenibile se protratto all’infinito: il termine “sviluppo sostenibile” sotto quest’ottica è un ossimoro evidente.

Quali sono le caratteristiche biologiche di quel processo che chiamiamo sviluppo, caratteristiche che troviamo nello sviluppo di un individuo, di un embrione, di un organo, di una comunità biologica?

Le caratteristiche fondamentali a mio avviso sono tre: 1. la crescita dimensionale e numerica, 2. la diversificazione-differenziazione dei componenti, 3. l’aumento della complessità e della interdipendenza dei vari componenti.

La prima caratteristica ci permette secondo me di capire perché non sarebbe la stessa cosa pensare a un ministero dell’evoluzione economica, a piani di evoluzione sostenibile eccetera: perché nella parola “evoluzione” non è compresa l’idea di una crescita dimensionale, l’evoluzione non prevede “crescita” numerica e dimensionale e quando in realtà parliamo di sviluppo, intendiamo invece sempre un concetto preciso: crescita, della domanda, dei consumi, degli scambi.

Va detto che anche il concetto di evoluzione non è un concetto così perenne come può sembrare a prima vista: la biologia ci insegna che le specie si evolvono per adattarsi ad un ambiente, quando questo adattamento si realizza si azzera la pressione selettiva e si raggiunge un equilibrio, tra soggetti evoluti e il contesto che ne ha determinato l’evoluzione. L’evoluzione riprenderà se e quando l’ambiente esterno muterà comportando così una pressione selettiva su specie e soggetti non più in equilibrio con il contesto (sto semplificando, ma non troppo).

Se è abbastanza evidente che una crescita dimensionale e numerica, insita nel concetto di sviluppo, non possa proseguire all’infinito senza scontrarsi con dei limiti fisici, meno immediato è il fatto che anche le altre caratteristiche del processo di sviluppo, pienamente verificate anche nei processi di sviluppo economico, non sono sostenibili all’infinito.

L’aumento della specializzazione e della complessità può avere, oltre un certo limite, delle conseguenze indesiderate. Quanto più un oggetto è complesso e fatto di componenti diverse e specializzate, tanto più la crisi di uno di quei componenti ha effetti difficilmente prevedibili sugli altri. La crisi del 2009 legata ai mutui sub prime può essere forse un esempio di questi imprevedibili esiti della complessità. In un oggetto iper-complesso la sostituzione, la riparazione diventa più ardua. Un cambiamento di sistema diventa sempre più difficile, addirittura sempre più difficilmente immaginabile. Il “manuale di istruzioni” è tanto più voluminoso quanto più un oggetto è complesso, in analogia il quadro legislativo diventa sempre più pesante quanto più una società si complica.

Questo tema può essere controverso: in fondo la biologia ci mostra anche che gli ecosistemi devono alla loro biodiversità e quindi complessità la loro resilienza, la biodiversità è questo: diversificazione. Ma anche questa biodiversità non aumenta all’infinito in un processo di successione ecologica.

Esiste un limite alla complessità nei sistemi biologici, e se sì, quale è? La risposta a questa domanda forse non la troveremo, ma la natura ci mostra ancora una volta un processo diverso da quello che il nostro “sviluppo” delinea: la natura non mira a complicarsi sempre di più, ma sembra raggiungere un “climax” che è anche un plateau di complessità.

Se il compito di chiudere l’era dello sviluppo è un compito non tracciabile in poche righe, un primo passo potrebbe essere capire almeno dal punto di vista semantico con quale termine sostituirlo. Quale concetto può racchiudere le giuste aspirazioni ad una vita degna, conviviale, pacifica, escludendo i tratti necessariamente insostenibili del concetto di sviluppo? Io credo che una parola guida possa essere la parola “equilibrio”. Anche se questa parola può nell’immaginario dare un senso di staticità, mi pare che la vita ci mostri ad ogni livello, da quello cellulare a quello planetario, di reggersi su una serie infinita di equilibri dinamici. E credo che un ministero “dell’equilibrio economico” sarebbe più propenso a favorire i processi di riconversione economica necessari ormai in quasi tutte le filiere produttive, filiere che spesso necessitano di un ridimensionamento, di una contrazione anziché di una espansione. I paesi sarebbero quasi tutti “in via di equilibrio”, molto poche sarebbero le nazioni che possono considerarsi “equilibrate”.

Una seconda parola, con un connotato più dinamico, che potrebbe essere utilizzata è la parola “conversione”. Questa sembra contenere un’accezione religiosa e spirituale, ma questo potrebbe forse persino essere un pregio. Ciò che serve per uscire dall’era dello sviluppo, se esso è un feticcio che viene quasi unanimemente “adorato” è anche un processo che ha una componente spirituale. Inoltre in una fase di transizione economica, gran parte dei comparti economici, dall’agricoltura all’allevamento, dall’industria alla chimica ha proprio bisogno di questo: una conversione. E quei comparti che devono essere dismessi, come l’industria bellica, avranno bisogno di una “riconversione”, di diventare altro, magari secondo la visione religioso-profetica del “trasformare le lance in falci, le spade in vomeri”. Non dovrebbe suonarci strano dunque avere un “ministero della conversione economica”, almeno durante una fase di transizione che auspicabilmente conduca ad un equilibrio.

In sintesi, siccome “le parole sono importanti, chi parla male pensa male e vive male” (cit.) credo che sia necessario dismettere un concetto fuorviante nelle sue implicazioni, per sostituirlo con altri che possano essere d’aiuto a trovare la strada della sostenibilità.

 

*http://www.radioradicale.it/scheda/586941/sviluppo-basta-a-tutto-ce-un-limite/sviluppo-basta