Piazza Fontana, 12 dicembre 16.37: esplode la bomba che ha ucciso 17 persone e ne ha ferite 88

Il 16 dicembre del 1969, quattro giorni dopo la strage, dopo 72 ore di fermo, convocato per essere interrogato sull’attentato, Pino Pinelli precipita dalla finestra dell’ufficio di Luigi Calabresi, Commissario dell’Ufficio Politico della Questura di Milano.

Ecco perché gli anarchici considerano Pino Pinelli la diciottesima vittima della strage di piazza Fontana.

Ieri piazza XVIII Dicembre a Torino c’è stata una commemorazione in forma molto ridotta a causa delle norme del dpcm.

Durante la commemorazione sono state lette dai presenti le biografie delle 17 vittime della strage e una lettera di Claudia Pinelli, figlia di Pino.

Il testo del comunicato del comitato organizzatore:

Al termine di questo strano anno, vissuto in perenne stato di emergenza diventa ancora più importante mantenere viva la memoria. Perché, pur nella convinzione che l’emergenza del momento sia reale, è bene ricordare, raccontando, testimoniando, cosa succede quando vi è chi tenta di utilizzare lo stato di emergenza, di eccezione per portare avanti istanze repressive e totalitariste.

Questo 12 dicembre non abbiamo potuto essere presenti a Milano, in piazza Fontana, in occasione dell’anniversario della strage fascista alla Banca Nazionale dell’Agricoltura del 1969, ma abbiamo voluto celebrarne la memoria nella nostra città, a Torino, in un luogo altrettanto evocativo, attraverso la manifestazione “Quel Pomeriggio del 12 dicembre…”, manifestazione apartitica ma profondamente politica.

Un ricordo della strage ma, soprattutto, un ricordo delle vittime. Tutte le vittime. Il tempo trascorso e la drammatica importanza della vicenda hanno finito per spersonalizzarle e strapparle alle loro storie personali per farne un numero, un elenco di nomi messi in fila su di una lapide.
E invece la bomba neofascista ha lacerato corpi, individui, famiglie, storie. Se è vero come è vero che la Storia, con la esse maiuscola, è l’insieme delle storie di tutti noi, scorrendo le storie di quelle vittime ritroviamo la travagliata Storia del nostro paese.

Chi va oggi in piazza Fontana e guarda la Banca Nazionale dell’Agricoltura si trova di fronte ad un austero e centralissimo edificio appena ai margini del salotto buono milanese. Ma nel 1969, in una giornata come quel 12 dicembre, quello era luogo di accordi, transazioni riguardanti compravendite di bestiame, di terreni. Non era l’alta finanza a popolare la banca ma quell’Italia contadina cantata proprio in quegli anni da Pier Paolo Pasolini.
In quella banca gli agricoltori e gli allevatori si ritrovavano per formalizzare gli accordi che spesso venivano sanciti dalla stretta di mano tra i contraenti “tagliata” dal mediatore: un gesto dal sapore antico.

Corpi, individui, storie che avevano attraversato più volte la Storia, con la esse maiuscola e ne erano stati segnati, ben prima di venirne travolti, quel giorno.
Come per Eugenio Corsini, Carlo Perego, Calogero Galatioto, Carlo Silva che avevano conosciuto l’orrore della cosiddetta Grande Guerra, al pari di Gerolamo Papetti, al quale il secondo conflitto mondiale aveva inoltre portato via un figlio, prigioniero sul fronte russo. Alla seconda guerra mondiale era sopravvissuto Mario Pasi, Oreste Sangalli e Pietro Dendena avevano vissuto l’esperienza della deportazione in Germania.

Difficile ritenere casuale la scelta del “bersaglio”, difficile non riconoscervi “lo stile” delle destre eversive.

Ma a noi preme ricordare le vittime tutte, come si è detto in premessa e quel che per anni, in tanti si è urlato in piazza ha ora, da pochissimi anni, una sua forma di riconoscimento anche nell’ambito della verità istituzionale: un elenco delle vittime della strage fascista di piazza Fontana, oltre ai 17 nomi dei morti dilaniati dalla bomba deve necessariamente includere il nome di Giuseppe Pinelli, anarchico, ferroviere, marito, padre. E non necessariamente in quest’ordine.

E che Giuseppe Pinelli sia un’ulteriore vittima di quella sporca faccenda è riconosciuto dall’associazione che raduna i famigliari delle altre vittime, è stato riconosciuto affermato espressamente dal Presidente Emerito delle Repubblica Italiana, allora pienamente in carica, Giorgio Napolitano nel 2000.
Nessuno più si illude che a questo riconoscimento potrà mai seguire una piena verità sulla vicenda che portò Pinelli, giunto alla questura spontaneamente e a bordo del suo motorino per uscirne cadavere, dopo un volo da una finestra del terzo piano.

La verità istituzionale ha sancito quella del “malore attivo” come causa del volo di Pinelli: una definizione che non trova riscontri in letteratura e che offende la memoria di “Pino, l’intelligenza di ognuno e la dignità della quale l’istituzione ama accreditarsi. La verità fattuale, pur mancante di alcuni passaggi, è ben intuibile a chi la voglia scorgere mettendo insieme i cocci. L’invenzione della “pista anarchica” per coprire e depistare dalla matrice neofascista e neonazista della strage, grazie alla connivenza di funzionari di un apparato istituzionale mai veramente defascistizzato.

Varrà la pena di ricordare, in questo senso che la carica di questore di Milano era ai tempi ricoperta da Marcello Guida, già direttore del carcere fascista di confino politico a Ventotene, carceriere solerte di molte delle più significative personalità dell’antifascismo storico.

E che questa circostanza fosse in se imbarazzante lo prova l’episodio in occasione della visita di Sandro Pertini, ai tempi presidente della Camera dei Deputati, uomo non tacciabile di scarso senso dell’istituzione, il quale negò allo stesso Guida la stretta di mano, in segno di disapprovazione.

Riteniamo giusto aggiungere altri due nomi al folto elenco delle vittime: quello di Pietro Valpreda, militante anarchico a lungo perseguitato dalla falsa e infamante accusa di esecutore della strage, la cui vita fu condizionata dalla lunga e travagliata vicenda processuale, prima di vedere infine riconosciuta la sua piena innocenza e quello dello studente comunista Saverio Saltarelli, ucciso da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo, durante la manifestazione in occasione del primo anniversario della strage, caduto a pochi metri dalla piazza Fontana.

La scelta del luogo della nostra iniziativa torinese ha per noi un altro valore simbolico, dal momento che si tratta di quella piazza 18 Dicembre il cui nome ricorda la strage fascista del 1922, quando per due giorni squadre fasciste di De Vecchi e Brandimarte devastarono indisturbati la città per due giorni, uccidendo brutalmente 11 persone, tra veri o presunti militanti comunisti, socialisti, anarchici.

Il fascismo era ai tempi al governo da poco più di un mese, in parlamento ancora sedevano i partiti di opposizione, l’Italia era ancora, almeno formalmente, una monarchia costituzionale. Eppure anche quella strage rimase impunita, amnistiata prima da Mussolini stesso, attraverso la legge che garantiva l’impunità agli autori di fatti di sangue commessi “nell’interesse nazionale” e amnistiata, de facto, nel dopo fascismo, insieme a tanti altri misfatti, beneficiando dei provvedimenti di amnistia decisi dal ministero Togliatti, anche quelli motivati da superiori interessi nazionali.

Stato di eccezionalità, di emergenza, necessità di normalizzazione: tutto questo permise di reintegrare nel nuovo esercito della repubblica italiana, nei ranghi delle forze dell’ordine, nelle istituzioni uomini come Piero Brandimarte che morì serenamente nel suo letto, accompagnato al cimitero con gli onori militari, uomini come Marcello Guida, il carceriere di Ventotene.

Sappiamo bene che il quadro di oggi non è quello dell’Italia degli anni venti, né quello degli anni ’60/70 del secolo scorso. Ma sappiamo altrettanto bene e la memoria di queste vicende ce lo insegna che le nostre libertà non sono, purtroppo neppure loro, a tempo indeterminato e vanno riconfermate, riaffermate, ribadite ogni giorno.