Abbiamo intervistato Francesco Gesualdi, uno degli allievi della scuola di Barbiana creata da Don Lorenzo Milani. Una testimonianza straordinaria su una figura che ancora oggi resta un punto di riferimento fondamentale quando si parla di educazione, coerenza e coraggio.

Da bambino hai avuto la fortuna di essere uno degli allievi di Don Lorenzo Milani a Barbiana. Raccontaci la tua esperienza.

Sono arrivato a Barbiana nel dicembre del 1956, a Natale; avevo 7 anni e ci sono rimasto fino al ’67, quando lui è morto e la scuola è stata chiusa. Ho trascorso quindi quasi tutta la mia infanzia e adolescenza là. Il tempo della mia formazione, anche se non si smette mai di imparare e la formazione dura tutta la vita. Là ho conosciuto i fondamenti dell’apprendimento, che poi ho coltivato in tutta la mia vita. Barbiana non è un vero e proprio paese, ma una località con una chiesa, due case attaccate e qualche altra casa isolata intorno al monte Giovi. La chiesa era il fulcro.

Io venivo dalla Puglia; la nostra stranamente fu un’immigrazione agricola, non industriale. All’inizio degli anni Cinquanta mio padre seguì un possidente locale che aveva un terreno da lavorare nei pressi di Prato. All’inizio era solo, poi arrivammo mia madre e noi quattro figli. Dopo pochi mesi mio padre morì per un attacco di cuore e mia madre si ritrovò sola; a cinque anni fui mandato come da tradizione in collegio, ma ci rimasi solo un paio d’anni. Un prete amico di Don Milani che conosceva la nostra situazione gli chiese di accogliere me e mio fratello Michele, i due più piccoli – i più grandi erano già andati a lavorare. Don Milani ci accolse e cominciammo a vivere con lui. Fu di fatto un rapporto filiale, con il priore come padre e Eda come madre. Eda era la signora che lo aiutava già a Calenzano e quando lui venne trasferito su a Barbiana lei lo accompagnò. Quando io arrivai Don Milani aveva 35 anni e visse fino a 47.

Mia madre continuò a vivere a Prato. Noi andavamo a trovarla di rado. Stavamo con il priore ed Eda 24 ore al giorno. Gli altri alla sera tornavano a casa, a mezzogiorno mangiavano dal tegamino che si erano portati, mentre noi pranzavamo a casa con loro. Io tutte le mattine alle 6 e 30 facevo il chierichetto e servivo messa. In chiesa eravamo solo io, il priore, Eda e sua madre Giulia, la “nonna”.

Nonostante abitassimo con lui il priore aveva un’attenzione particolare per gli ultimi e non faceva mai sentire a qualcuno di essere amato di più o di meno degli altri. Iniziò con un gruppetto di sei, non per scelta ideologica, ma per bisogno. A Barbiana esisteva solo la scuola elementare, che era una pluriclasse; finita quella c’era giù al piano la scuola media, dove in tanti venivano espulsi prima del tempo, o neppure ci andavano perché era troppo lontana. Così nel ’57 cominciò a raccogliere questi ultimi. Una volta che ebbe portato questi primi sei alla conclusione della scuola dell’obbligo, c’erano altri ragazzi pronti ad iniziare, tra questi anch’io che avevo inizialmente frequentato la pluriclasse elementare. Per farmi entrare in quel nuovo gruppo mi fece saltare la quinta e io ottenni la licenza elementare da privatista con un anno di anticipo.

Don Milani inventò questo sistema: la scuola che “serviva” per conseguire il titolo, ovvero seguendo i programmi ministeriali, si svolgeva alla mattina e veniva gestita dai ragazzi più grandi che erano rimasti, mentre lui teneva le lezioni di pomeriggio fino a sera. E queste spaziavano dal pensiero alla riflessione, dalla discussione alla scrittura. Di solito si cominciava leggendo il giornale. Ci fu un periodo in cui i ragazzi erano dodici, divisi in due gruppi.

D’inverno la scuola si faceva nella canonica: c’era la stanza principale e si usavano più tavoli in contemporanea, poi si dedicava molto tempo al lavoro manuale. Avevamo un’officina di sotto dove si lavoravano il legno e il ferro. La sua idea era quella di renderci persone LlBERE sotto tutti i punti di vista, nella nostra globalità, proiettate nella nostra vita futura. Noi non siamo solo testa, ma anche mani, gambe…

C’erano anche delle ragazze, ma poche, più per scelta delle famiglie che non consideravano importante la loro istruzione. Eravamo già in un periodo di forte esodo, Barbiana si stava spopolando: c’erano quasi solo le famiglie legate alla scuola, tutte le altre se ne stavano andando e chi aveva solo ragazze andava via.

Noi tutti gli anni andavamo giù alla scuola a dare gli esami di stato e passavamo a pieni voti. Si sparse la voce che chi studiava a Barbiana passava a pieni voti e allora arrivarono altri ragazzi dal piano, quelli che venivano bocciati. A Barbiana tutti recuperavano. Così se da una parte si erano esauriti i ragazzi delle poche famiglie vicine, dall’altra cominciarono a venire a Barbiana fino da Vicchio. Arrivammo a 20-25 ragazzi, fino a 16 -17 anni. Dopo la terza media chi si fermava lo faceva perché voleva, perché gli piaceva e gli interessava, non perché si garantissero altri pezzi di carta.

Il suo pallino era la padronanza della lingua, quindi anche le altre discipline potevano comunque servire ad arricchire il linguaggio e a fornire strumenti per fare altri approfondimenti più avanti. Certo lui aveva presente che quei ragazzi potevano restare per un tempo limitato e quindi si chiedeva quale era l’insegnamento più urgente da fornire, per renderci cittadini sovrani capaci poi di stare nel mondo. Avevamo vari libri di testo, spesso regalati da amici. Lui poteva fare lezione su qualsiasi materia e il programma di stato si faceva tutto, oltrepassandolo alla grande.

Le condizioni che poneva erano molto semplici: frequentare e rispettare gli orari, dalle 8 di mattina alle 7 di sera, con una pausa a mezzogiorno. Chi abitava vicino andava a casa a mangiare e gli altri si portavano il pasto da casa. 365 giorni all’anno. Dopo pranzo si faceva del lavoro manuale che serviva per la casa o la scuola, o si riparava una buca nella strada… Non giocavamo così come lo si concepisce oggi e questo non era per noi una mancanza. La domenica pomeriggio poteva essere un momento più ludico, giocavamo a nascondino, a rincorrersi, a saltare sulla schiena l’uno dell’altro…

Alle sette di sera tutti andavano a casa. Noi cenavamo e dopo cena lui in genere leggeva il breviario e non di rado ci si addormentava sopra, stanco e distrutto. Magari veniva qualche adulto del vicinato a fare due chiacchiere con la stufa accesa. A volte venivano dei suoi ex allievi da San Donato e allora lì si facevano le ore piccole, ma io andavo a letto.

La scuola per Don Milani doveva essere collegata al contesto sociale. A quei tempi i ragazzi di campagna non avevano molti margini di scelta e l’ozio non esisteva. Come gli adulti si alzavano alle 5 del mattino e andavano a letto alle 11 di sera; le braccia non bastavano mai. Lui non avrebbe mai accettato una situazione in cui i genitori erano a faticare nei campi e i ragazzi a trastullarsi, tanto più che aveva un’idea molto chiara: a 14 anni si andava a lavorare, perché a quell’epoca era così. Quindi aveva chiaro che in un tempo molto breve doveva darci il massimo del sapere per fare di noi delle persone libere e dignitose. Non c’erano margini per perdere tempo.

C’era poi l’abitudine di spedirci all’estero, in genere verso i 15 anni. Lui aveva rapporti soprattutto con la Germania, dove facemmo anche la prima gita. Poi molti andarono in Inghilterra e in Francia. Io passai anche un periodo in Nordafrica perché avevo deciso di studiare l’arabo.

Per spostarsi Don Milani usava una bici, gli sci e più avanti una vespa. Nessun furgone o altro, i ragazzi dovevano arrangiarsi da soli. Le gite si facevano coi mezzi pubblici, andavamo anche a visitare città d’arte. A Roma, a Livorno a vedere il mare che noi montanari non avevamo mai visto…

Quanto c’entrava la religione con tutto ciò? Potrei dire tutto e nulla. Religione intesa come dottrina MAI, religione intesa come riflessione sul senso della vita SEMPRE. Lui era un prete e quindi le sue funzioni le svolgeva. Ogni mattina alle 6,30 c’era la messa e come dicevo io ero il suo chierichetto. Finché ha potuto ha detto messa tutti i giorni, poi quando si è ammalato gravemente ha smesso. La domenica c’erano parecchie persone. Con gli abitanti di Barbiana c’era un bellissimo rapporto, era amatissimo, c’era fiducia totale. A Vicchio invece, dove lui andava una volta alla settimana per telefonare alla mamma, era semplicemente ignorato.

A scuola eravamo abbonati al Giorno, che era il giornale di Mattei, dell’ENI; allora era un po’ più progressista, non era quello che poi è stato assorbito dalla Nazione. Il Giorno metteva in risalto anche delle tematiche internazionali che lui reputava importanti. Don Milani conosceva benissimo il tedesco, oltre all’inglese, al francese e all’ebraico.

Rispetto alla sua vita pubblica, alla sua visibilità, per Don Milani c’è stato un crescendo continuo, quando è morto era al top; era appena uscito “Lettera a una professoressa” che fece molto discutere. Il libro uscì a maggio e lui morì a giugno del 1967. Nel ’58 erano uscite le Esperienze pastorali che fecero parlare molto di lui, poi la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e quella a una professoressa. Fu un crescendo di clamore che si creò intorno a Barbiana.

Nel processo in cui lui fu imputato insieme a Pavolini, che era direttore di Rinascita e aveva pubblicato la Lettera ai cappellani militari in un primo momento vennero entrambi assolti. Poi in appello Pavolini venne condannato per apologia di reato, ma a quel punto Don Milani era già morto.

Don Milani sapeva quello che faceva, sapeva quali conseguenze avrebbero avuto le sue parole e a quali scontri andava incontro; ne aveva già pagati di scotti in vita sua. Lui non faceva mai dei calcoli di convenienza, stava nella posizione più corretta e vicina alla verità, indipendentemente da quello che avrebbe potuto provocare. Di fatto comunque, peggio di così non gli potevano fare: a poco più di trent’anni era stato già mandato in esilio a Barbiana. Quando era parroco a San Donato, vicino a Firenze, aveva preso delle posizioni che disturbavano i poteri, ecclesiastico, economico, politico. Aveva criticato certi compromessi della Chiesa col potere politico ed economico.

Tanti poi vennero a trovarci a Barbiana, ma ci furono anche giornalisti che lui cacciava via, quando si rendeva conto che erano lì per strumentalizzarlo. Una volta mi ricordo che scacciò dei giornalisti dello Specchio, un giornale fascista e ci invitò a tirargli dei sassi perché se ne andassero. Riteneva pericolose certe testate e non le voleva.

Con altri giornalisti entrò invece in una relazione profonda e seria. Lui in genere era molto accogliente, permetteva a tutti di assistere alla sua scuola. Certo, faceva una selezione: se qualcuno veniva per parlare con lui o confessarsi, si appartavano. Se qualcuno veniva perché era curioso e voleva fare due chiacchiere, lui li selezionava sempre, li vivisezionava. Se valutava che non avessero nulla di interessante da dire ai ragazzi, faceva loro la cortesia di farli assistere alla lezione. Se invece riteneva che avessero qualcosa di interessante da dire interrompeva quello che si stava facendo e li intervistava. Noi a quel punto assistevamo a un dialogo tra lui e il visitatore, con un incitamento costante a intervenire.

Sul lato affettivo, lui era un padre nel vero senso della parola, quindi aveva tutti gli atteggiamenti dei padri, dalla carezza, al richiamo, alla punizione se serviva; era al tempo stesso molto severo e molto tenero. Qualche ceffone ci stava, anch’io ne ho presi tanti! Per varie marachelle, per una disattenzione. Se si rendeva conto che a scuola eravamo distratti o apatici andava su tutte le furie. E serviva, serviva, ci si svegliava. Comunque, diceva, un livido passa in 48 ore, un brutto voto a scuola ti rimane come un marchio. Era il padre insegnante che ci amava e quindi poteva darci un ceffone se serviva.

Di Don Milani è rimasta più retorica o sostanza? Da parte delle persone che sono state “folgorate” vedo un atteggiamento serio di riflessione di chi si lascia interrogare; su ciò che si è modificato a livello macro, o istituzionale, sarei piuttosto titubante. Sui film fatti qualcosa mi disturbava perché c’erano difformità rispetto agli eventi reali, però ho capito che per chi non aveva vissuto direttamente quell’esperienza i ritorni erano positivi. Per i film non mi hanno mai chiesto nulla, qualcosa su alcuni spettacoli teatrali.

La sua malattia è durata un buon quattro anni, dal ’63 al ’67. Linfonodi che si ingrossavano, un linfogranuloma maligno. Non era operabile, era un tumore al sistema sanguigno. Ha saputo da subito di avere una malattia grave, però ha fatto scuola fino a che ha avuto fiato. “Lettera a una professoressa” è stato completato con una certa ansia; lui sentiva che se ne stava andando. Stava parecchio male, la scuola la faceva dal letto. Vomitava, dolori che non ne poteva più. Nell’ultimo periodo aveva bisogno di trasfusioni e venne ricoverato in ospedale; alla fine poi stava talmente male che si trasferì a casa di sua madre a Firenze, dove morì. Il rapporto con la madre era molto tenero, molto forte. Il padre era morto poco dopo che si era fatto prete. La madre invece l’abbiamo conosciuta bene, veniva su a Barbiana tutte le estati. Era una signora distinta, le signore di un tempo… Era molto vicina al figlio, certo veniva da un’altra situazione, era una famiglia aristocratica. Credo che la mamma si sia sempre adeguata ai voleri del figlio e che anzi gli abbia dato briglia sciolta e lo abbia anche sostenuto, magari non condividendo le sue posizioni.

Coerenza, responsabilità, ricerca della verità: queste le parole che userei per riassumere l’esperienza di don Milani.

Dopo la morte di Don Lorenzo ebbi la possibilità di seguire un corso annuale alla CISL di Firenze per quadri sindacali, che mi servì molto per completare la mia formazione e per colmare alcune mie lacune in ambito economico e giuridico. Là ottenni strumenti utili a mettere in atto tutti gli stimoli ricevuti prima. Quindi una breve esperienza alla sezione sindacale di Massa, dove rimasi molto deluso e andai via. Abbandonai subito la carriera sindacale capendo che si veniva calati dall’alto e non eletti dal basso… Poi feci il servizio militare, perché allora era obbligatorio. Mi sposai nel 1970, appena finito il militare. Passai un periodo a fare scuola popolare a San Donato con altri ex allievi, poi due anni in Bangladesh con la famiglia in un’attività di volontariato. Poi siamo tornati e abbiamo creato questo progetto che è ancora in piedi, qui a Vecchiano, vicino a Pisa. Ho avuto un paio di figli naturali e vari altri in affidamento. Ho fatto l’infermiere per guadagnarmi da vivere e tutte le attività supplementari per contribuire a un mondo migliore.

Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo nacque nell’85 con questa casa, quando finimmo di costruirla. Con mia moglie abbiamo sempre condiviso i progetti: la casa come luogo fisico era direttamente coinvolta nell’attività sociale e politica, quindi dovevamo essere tutti d’accordo. Portavamo avanti sia la dimensione dell’accoglienza coi ragazzi in affido, sia quella politica per cambiare l’assetto della società. Abbiamo retto bene. Certo, forse bisognerebbe chiedere ai nostri figli come l’hanno vissuta, a loro in parte l’abbiamo “imposta”, ma quale è la famiglia che non “impone” dei contesti ai figli? E molte volte è il contesto più ampio che condiziona e ben più pesantemente. Quanti ragazzi a 12 anni devono andare a lavorare, perché la famiglia non ce la fa… E’ la famiglia che glielo impone? Credo siano più le condizioni generali.

Tu hai attraversato gli ultimi decenni con questa eredità legata a Don Milani sulle spalle. Come sono andati?

Personalmente ho sempre cercato di dare il mio contributo per influenzare il corso della storia. Lo sforzo ha dato risultati? Abbiamo adottato le giuste strategie? Le migliori? Quando si fanno dei bilanci ci sono sempre delle luci e delle ombre.