Dopo le risposte di Riccardo Noury, Laura Quagliolo, Giovanna Procacci e Giovanna Pagani, sentiamo Guido Viale.
Ora che stiamo uscendo dall’emergenza Covid19 molti dicono: “Non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”. Questa, dunque, può essere una grande occasione di cambiamento. Qual è secondo te la necessità di cambiamento più urgente in questo momento e cosa sei disposto a fare in quella direzione?
La frase “Non torneremo alla normalità; la normalità è il problema” è stata stampata sulla copertina del libro Niente di questo mondo ci risulta indifferente (Interno 4 edizioni), che Daniela Padoan ha curato per conto dell’associazione Laudato si’ e a cui ho contribuito anche io insieme a decine di altri co-autori nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Quel motto vuole essere un marchio di cui proponiamo l’adozione a tutti coloro che, nei più diversi ambiti culturali, si impegnano per imporre al loro lavoro e alle loro vite un radicale cambio di rotta in direzione della convivialità e della riconciliazione con le esigenze dell’ambiente e della Terra tutta.
La necessità di cambiamento più urgente, imposto non solo dalla pandemia, ma, ben più profondamente, dalla crisi climatica e ambientale, è quella di abituarsi a fare a meno delle nostre abitudini. Di tutte: nell’organizzazione della nostra vita quotidiana, nelle nostre relazioni familiari e sociali, nei nostri acquisti, nel nostro modo di lavorare – anche all’interno di lavori o professioni che offrono ben poche opportunità di un vero cambiamento – nel nostro modo di comunicare, di fare – nel nostro piccolo – cultura, di fare – se la facciamo – politica. Partire da sé, da quello che noi possiamo fare, non significa chiudersi in se stessi.
Niente della nostra vita può cambiare, ma nemmeno restare tale e quale, al di fuori di un rapporto con gli altri e soprattutto, per noi maschi, con le “altre”; ma non solo con gli altri esseri umani, bensì con tutto il vivente, con la “natura”, con la Terra. Quella che l’umanità ha massacrato, pensando quasi solo a dominarla e sfruttarla, durante tutto il corso della sua storia, ma soprattutto negli ultimi due secoli e mezzo e ancora di più negli ultimi decenni.
Il recupero di un rapporto di consonanza con la terra – nel suo duplice significato di Terra come il pianeta su cui viviamo e di terra come suolo da salvaguardare e coltivare con cura- deve fare da guida alle iniziative da prendere e alle produzioni da promuovere (e anche o soprattutto a quelle da chiudere) per rendere effettivo questo cambio di rotta.
In questo nostro rapporto, nella nostra capacità di prenderlo seriamente in considerazione, di rimetterlo interamente in discussione prima in sé e poi insieme a chi ci è più vicino, si radica la possibilità di un rivolgimento radicale di tutto l’assetto socio-economico del pianeta: il “locale”, quanto più è radicato nel personale, tanto più si rivela – fatte le dovute differenze di contesto – replicabile ovunque, cioè potenzialmente globale. E viceversa: non c’è possibilità di “mettere in sicurezza” il pianeta su cui viviamo, e su cui dovranno vivere i nostri figli, nipoti e discendenti, se questo progetto non si radica nella più intima interiorità di ciascuno di noi; o per lo meno, di un gran numero di noi.
Cosa servirebbe per appoggiare quel cambiamento, a livello personale e a livello sociale?
Dobbiamo imparare a non separare più queste due sfere dell’agire: personale e sociale sono indissolubilmente connessi e inscindibili. La società non è fatta di individui (o di “famiglie”, entità sempre più evanescenti) senza relazioni tra di loro, per di più in competizione, come pensava Margaret Thatcher (e dopo di lei tutto il pensiero unico che ci domina da decenni), ma di “persone” da sempre e per sempre legate tra loro. Se le persone con cui entriamo in rapporto – diretto, cioè personale, o indiretto: politico, sociale, solo di lavoro, o mercantile, o culturale – possono continuare a comportarsi male e a fare scelte che a noi paiono dannose o addirittura letali per i destini della specie, è perché noi glielo permettiamo, offrendo loro un riscontro puntuale, ancorché spesso inconsapevole, con i nostri comportamenti. Accettiamo dei rapporti che sappiamo essere falsi o controproducenti per non turbare equilibri consolidati, per non rinunciare ad alcune delle nostre abitudini. Certo è difficile rendersene conto e ancora di più agire di conseguenza, ma è sbagliato lasciare le cose come stanno e indulgere in una sorta di inerzia.