La lettura di una piccola frase, contenuta in un articolo firmato da 250 scienziati che “chiedono un urgente ripensamento del nostro modo di sviluppo”, mi ha ricordato ancora una volta il drammatico errore che è sempre nostro e al quale rispondiamo collettivamente in una sorta di riflesso pavloviano:

“L’urgenza e i tempi lunghi si sono scontrati qui ed è l’assordante onnipresenza dell’urgenza che predomina… i tempi lunghi sono qualcosa di troppo vago, troppo confuso, troppo incerto, troppo impalpabile.”

I redattori di questa rubrica vogliono mettere in guardia dal rischio di un’emergenza sanitaria che ci porterebbe a ritardare, ancora una volta, l’attuazione di misure essenziali per combattere il riscaldamento globale.

Hanno naturalmente il diritto di farlo – e di invitare i governi e i responsabili delle decisioni della società civile – per ricordare che un’emergenza a breve termine non deve compromettere un’emergenza a più lungo termine.

Ma qual è esattamente la natura di questa emergenza? Quella di una specie che – senza dubbio esaltata dal suo successo nel corso dell’evoluzione – è arrivata a minacciare se stessa. Una sorta di urgenza antropologica.

È affascinante osservare come, in natura, a ogni specie animale o vegetale venga assegnato un ruolo che assume senza deviare da esso. Così facendo, emerge un’armonia generale che va a beneficio dell’insieme, in un’incessante ventata di supremazia e sottomissione che si equilibrano a vicenda.

E nel bel mezzo di questo concerto prodigioso, una nota sempre più stonata sta rovinando tutto. L’errore della nostra specie, che ha capito solo la parte subordinata delle sue qualità intrinseche, quella parte che ci permette di trasformare il nostro ambiente.

La nostra funzione di specie è molto più di questo e non è la nostra inazione a essere deplorata, ma un eccesso di zelo nel cercare di correggere i nostri errori, senza prendersi il tempo di analizzarne tranquillamente la causa.

“Calmati!” sono tentato di dire. Non abbiamo dimenticato, trascurato, ignorato qualcosa di essenziale lungo il cammino?

Non dovremmo urgentemente tornare (o cessare qualsiasi attività) ai nostri fondamentali? Quelli della conoscenza di sé, dell’apprezzamento di ciò che ci viene dato, della pace, della chiarezza, della coscienza, della benevolenza… La lista è lunga di tutto ciò che abbiamo trascurato a favore di un’unica intelligenza utilitaristica, predatrice, arrogante e inquieta.

Potremmo forse allargare il campo delle possibilità di ciò che è umanamente (e non tecnicamente) possibile realizzare? A questo punto, varrebbe la pena provare. Chissà se potremmo finire per prenderci gusto, come una madeleine di Proust di cui riscoprire il sapore?

“La gente non dovrebbe sempre pensare tanto a quello che dovrebbe fare, dovrebbe pensare a quello che dovrebbe essere. Se solo fosse buona e fedele alla sua natura, le sue opere potrebbero brillare di una chiarezza vivida.” Maestro Eckhart

Traduzione dal francese di Raffaella Forzati