Con la “bozza di maggio” sembra giunto in dirittura d’arrivo il “decreto-d’aprile”. Infatti, nei prossimi giorni (forse già domani), l’imbastitura delle misure governative sul “pacchetto lavoro”, tanto attesa da quanti sono stati travolti dalla quarantena di questi mesi, dovrebbe essere varata per dare risposte al montante disagio sociale, quale effetto devastante provocato dalla crisi del sistema economico sotto l’impulso esogeno dell’emergenza pandemica.

Il travagliato decreto, dalla lunga gestazione, ha subito vari rinvii a causa delle frizioni interne alla maggioranza, in particolare tra M5S e il resto della coalizione PD-IdV-LEU (seppure quest’ultimi con diverse sensibilità di merito e di stile). Com’era prevedibile l’oggetto del contendere ruota attorno alla questione del reddito di emergenza: da un lato, chi ne chiede l’introduzione con un’impostazione più strutturata (M5S); dall’altro, chi invece vuole limitare l’incidenza con un sussidio erogabile una tantum (gli altri della compagine governativa).

In verità i segnali della contrapposizione fra le forze della maggioranza apparivano evidenti fin dall’avvio dell’iter della discussione sulla misura, a partire dall’altalenante previsione di spesa del fondo da destinare a copertura del reddito di emergenza (RdE), stimata inizialmente in 3mld  e successivamente – sul finire dello scorso mese – ridotta di 1\3. Da ciò si intuisce come la soglia massima reddituale (inferiore a 15mila euro-ISEE) richiesta per l’accesso al beneficio del RdE (400\800 euro x 3 mensilità) sia stata determinate più sulla scorta delle risorse messe effettivamente a copertura del sussidio, che sull’effettivo stato diffuso di necessità generato dalla quarantena.

Infatti, dall’impianto di massima della bozza del nuovo provvedimento governativo, si capisce che l’azione di sostegno è improntata quasi esclusivamente a fronteggiare in modo prioritario la crisi sistemica imprenditoriale, nel tentativo di risollevare il paese dalla recessione – come se questa fosse una delle tante crisi cicliche capitalistiche conosciute nel passato – mentre l’approccio politico sulla crisi sociale in atto, determinatasi a causa dell’emergenza pandemica, è improntato secondo meccanismi residuali e transitori, giacché una volta ripristinati “velocemente” i fattori della produzione, si pensa, tutto rientrerà nella “normalità” dei rapporti di scambio.

La riconoscibilità dell’impostazione “lavorista” del decreto de iure condendo è data dal fatto che il pacchetto finanziario è essenzialmente rivolto ai settori della produzione: si tratta di interventi di spesa per complessivi 25 miliardi, di cui 13 destinati al giusto rifinanziamento degli ammortizzatori sociali per i lavoratori dipendenti (Cassa integrazione fino a luglio-agosto). Inoltre sono state ri-disciplinate le indennità per gli “autonomi” e previste misure per la galassia del precariato, ovvero per la generazione-JobsAct (stagionali, intermittenti, occasionali, ect.).

In definitiva, però, questo decreto-legge riprodurrà ancora una volta lo stesso modello gerarchizzato del bisogno sociale, marginalizzando tutto quanto non è riconducibile alla mediazione del rapporto di scambio capitale-lavoro, stabilendo nella forma del salario – così come vogliono Confederazioni padronali e Sindacati confederali – l’unica chiave di accesso al reddito. La giusta battaglia per il reddito di base incondizionato e universalmente riconosciuto ad ogni individuo come un diritto “che permette agli individui di poter scegliere il proprio percorso di vita e di autodeterminarsi”(*), necessita per affermarsi di una potenza conflittuale sociale antagonista, culturalmente alternativa al paradigma dominante: è illusorio aspettarsi dal ceto politico un cambiamento di rotta, nemmeno in presenza delle inconfutabili défaillances del sistema neoliberista di fronte all’emergenza pandemica.

Rispetto a questo composito quadro di soggetti, sicuramente in condizione di sofferenza, la platea interessata al sussidio emergenziale (RdE), quella in condizione di assoluta indigenza, è considerata come un fenomeno marginale e residuale, la cui risoluzione va ricercata nello sviluppo economico e nell’allargamento delle attività produttive. Si tratta, in effetti, delle medesime considerazione fatte al tempo dell’introduzione del Reddito di Cittadinanza, contro il quale si era aperto un fuoco di sbarramento che coinvolgeva non solo tutte le opposizioni, ma financo lo stesso governo che obtorto collo varò la misura concependone l’efficacia come  politiche attive di workfare.

In base a queste logiche, rebus sic stantibus, anche l’aspettativa del reddito di emergenza, con cui il decreto tanto atteso dovrebbe dare risposte ai “poveri da quarantena”, deve coerentemente rispondere ai presupposti del versante economico, nel senso che dovrà essere confinata nei limiti della temporalità (trimestralità a partire da luglio) con tutte le condizionalità già previste per il  “reddito di cittadinanza” (i cui correttivi dei massimali sui tetti reddituali e patrimoniali dei nuclei familiari (dichiarazione-ISEE) sono ininfluenti e non alterano minimamente la strutturazione diabolica previgente).

Insomma quel che prevale nella dinamica gestionale della crisi è la centralità paradigmatica dell’Economico, su cui convergono – con varie sfumature di  grigio – governo, opposizioni  e le fantomatiche “Parti Sociali” (sindacati e associazioni padronali), sempre più nemici di qualsiasi forma di sostegno al reddito autonomo dal rapporto di scambio. E infatti sono fortemente contrariati anche da un’auspicabile introduzione legislativa sul “salario minimo”, pur di mantenere il monopolio della rappresentanza nell’ambito delle compatibilità contrattuali. Sono invece favorevoli a legiferare sulla rappresentatività in materia negoziale sulle politiche economiche (oltre che sulla rappresentatività contrattuale nelle singole categorie), cercando di bloccare le nuove insorgenze della cooperazione sociale che premono per una vertenzialità sulla distribuzione della ricchezza (anche con la riparametrazione delle aliquote del sistema fiscale, immaginando forme di drenaggio impositivo che ribaltino la piramide sociale, chiedendo qualche sacrificio in più a quel 3% di popolazione che detiene il 50% circa del patrimonio nazionale).

In conclusione, crediamo che, senza nulla togliere alla tenuta del sistema e alla necessità di stimoli finanziari per favorire la ripresa economica, vi sia nel ceto politico una sostanziale sottovalutazione dell’emergenza sociale, convinti di un suo immediato riassorbimento nel modello produttivo una volta ripartita la macchina. Ma si è proprio certi che passata la buriana – s’interrogano i sociologi –  molti torneranno alla propria occupazione? Noi registriamo, come indicatore della grave crisi sociale, il dato fornito dalla Caritas: le persone assistite nel mese di aprile, rispetto ai primi mesi dell’anno, sono più che raddoppiate, passando da circa 19mila ad oltre 38mila. Queste cifre, evidentemente, vanno sommate a quella degli oltre 200mila assistiti annualmente che versano nello stato d’indigenza; fra questi nuovi assistiti vi sono piccoli imprenditori, artigiani, negozianti, molti dei quali titolari d’impresa a conduzione familiare (forma assai diffusa nel Mezzogiorno), oggi scivolati di punto in bianco sotto la soglia della povertà assoluta.

(*) vedi intervista di Pressenza.com a Sandro Gobetti