E’ uscito il numero 10 dei Quaderni per il Reddito del BIN Italia dal titolo: “Reddito di base in Africa. Le sperimentazioni e il dibattito” (Asterios Editore, 2019).

Questa volta Luca Santini, Sandro Gobetti e Federico Maggiulli hanno affrontato il tema delle attuali sperimentazioni del reddito di base che sono in corso in alcuni paesi africani e del dibattito che stanno producendo. Cosi come viene riportata in evidenza, di nuovo, la storica sperimentazione in Namibia che segnò una nuova frontiera per la proposta del reddito di base, quella appunto di realizzare in pratica questa idea per misurarne gli effetti, le criticità, le potenzialità.

Un Quaderno per il Reddito, questo, ricco sopratutto di informazioni e notizie, testimonianze e dati. Una pubblicazione che offre uno spaccato nuovo dell’Africa e non solo perchè, accanto le tante altre sperimentazioni nel mondo (India, Canada, Finlandia, Corea del Sud etc.) pone proprio il continente africano al centro di questo dibattito.

Inoltre, questo è un Quaderno che ospita l’esperienza di un piccola “sperimentazione” realizzata dall’Italia. Grazie attraverso alcune donazioni in denaro, infatti, un sacerdote italiano ha voluto sperimentare questa idea destinando del denaro ad alcune famiglie in Burkina Faso. Il BIN Italia in questa occasione ha dato il suo contributo attraverso uno studio di monitoraggio e valutazione di un anno di questa sorta di reddito di base attraverso delle donazioni incondizionate.

Il libro si può acquistare anche online sul sito del BIN Italia nella pagina “sostieni il BIN italia” cliccando qui oppure sul sito della casa editrice cliccando qui.

Di seguito l’indice del Quaderno per il Reddito n°10

• Con Luca Santini, di Sandro Gobetti
• Sfide del welfare in Africa, di Luca Santini
• Kenya, GiveDirectly e il progetto di un universal basic income
• Uganda, Eight World per il reddito di base
• Namibia, The BIG Coalition
• Aggiornamento dalla Namibia. Gli sviluppi politici in Namibia, di Claudia e Dirk Haarmaan
• Una buona opera in Burkina Faso. Da una donazione a un reddito di base? A cura del comitato scientifico del Basic Income Network (BIN) Italia
•L’eco del dibattito in Africa

Infine, questa pubblicazione, ci teniamo a ricordarlo, è anche il frutto di un lavoro proposto da Luca Santini, Presidente del BIN Italia fino alla fine di Luglio 2019 quando una orribile e violenta malattia ce lo ha portato via. Il caso ha voluto che proprio uno dei suoi ultimi lavori affrontasse proprio quei temi a lui tanto cari: il reddito di base e l’Africa. Per questo, la pubblicazione appena realizzata, è anche un omaggio a questo nostro compagno, amico, fratello… per questo pubblichiamo qui l’introduzione al Quaderno per il Reddito n° 10 scritta proprio da Luca Santini:

 

Sfide del welfare in Africa
di Luca Santini

Introduzione

Crescita economica costante, età media della popolazione molto bassa, diminuzione delle guerre e dell’instabilità politica, aumento dell’istruzione: gli indicatori socio-economici sul continente africano danno quotidianamente linfa a un diffuso e ben fondato sentimento
«afro-ottimista»(1). Dai primi del 2000 a oggi l’economia africana ha registrato una crescita del PIL oscillante tra il 4% e il 7% ogni anno. La tendenza alla diversificazione della produzione appare inarrestabile, con ciò determinando una sempre minore dipendenza dalle esportazioni(2). Gli analisti ritengono che nei prossimi 20 anni la crescita economica dell’Africa continuerà a essere tra le più veloci al mondo, trainata da una rapida urbanizzazione e dalla conseguente forte richiesta di tecnologie, infrastrutture, servizi di base(3).
Pur evitando generalizzazioni (non si deve mai dimenticare che l’Africa è composta da 54 Stati diversi tra loro per storia, struttura economica, tradizioni giuridiche e culturali) si ha dunque la forte impressione che «il continente più antico del mondo» si stia scrollando di dosso quell’aura di immobilità che da un paio di secoli almeno si porta dietro e che sia in procinto di confrontarsi finalmente, e di nuovo alla pari, nel contesto globale.

Eppure, nonostante sia lecito ben sperare per il futuro dell’Africa, non vanno sottovalutati i problemi ben presenti ancora oggi nell’intero continente. Il versante in cui maggiormente viene in evidenza il perdurante gap storico con i paesi dell’occidente è proprio quello della protezione sociale. Tra le società a capitalismo avanzato e quelle africane sussiste ancora oggi un abisso nel livello di protezione del cittadino. L’organizzazione internazionale del lavoro (OIL) classifica i sistemi di welfare del pianeta sulla base della loro completezza e del tasso di copertura(4). I rischi presi in considerazione dall’OIL sono quelli tipici contro cui lo stato sociale offre un’assicurazione: infanzia, disoccupazione, incidenti sul lavoro, maternità, vecchiaia, accesso alle cure mediche.

Ebbene, solo il 20% della popolazione mondiale gode di una copertura completa e adeguata dai rischi menzionati, mentre più di 5 miliardi di abitanti del pianeta risultano avere una protezione soltanto parziale o addirittura assente. Nel contesto africano si registra che addirittura l’80% della popolazione versa in una condizione di totale assenza di protezione da un qualsiasi rischio. Alcuni studiosi(5) hanno tentato di stabilire una classificazione dei sistemi di welfare esistenti in Africa nell’ambito della nota triade di Esping-Andersen(6). Il sociologo danese distingue fra tre regimi di welfare: liberale, corporativo e socialdemocratico, distinguibili sulla base della combinazione di due variabili, quella della «de-mercificazione» (o tendenza alla protezione dalle dinamiche di mercato) e quella della «stratificazione o differenziazione sociale» (o tendenza al livellamento delle disuguaglianze).
Ad esempio il regime liberale riscontrabile in Australia, Canada e Stati uniti sarebbe caratterizzato da una forte aderenza alle dinamiche di mercato, mentre il modello socialdemocratico si caratterizza per una forte tendenza all’egualitarismo. Queste categorie sembrano però avere uno scarso valore euristico nel contesto dell’Africa sub-sahariana (eccezion fatta per il solo Sudafrica), se non altro perché il concetto di «de-mercificazione» presuppone un altro livello di «mercificazione» a cui il welfare dovrebbe porre rimedio, circostanza questa che non si riscontra nelle economie africane ancora oggi caratterizzate da un forte tasso di informalità. Si parla allora piuttosto di regimi sub-sahariani di «insicurezza sociale» o in altri approcci di «sicurezza informale»(7).

Eppure tra gli obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile proclamati nel 2015 dai 193 Stati membri dell’ONU figura al primo posto lo sradicamento della povertà estrema in tutto il mondo(8). Associato a questo obiettivo vi è in particolare quello di «implementare a livello nazionale adeguati sistemi di protezione sociale e misure di sicurezza per tutti, compresi i livelli più bassi, ed entro il 2030 raggiungere una notevole copertura delle persone povere e vulnerabili ». Anche l’OCSE e la banca mondiale hanno assunto in anni recenti una posizione di maggior favore rispetto al passato(9) sui programmi di protezione sociale implementati in molti paesi in via di sviluppo (la riabilitazione teorica dei programmi di trasferimento monetario nel Sud del mondo è dipesa anche dal grande successo del programma Bolsa familia introdotto in Brasile nel 2003)(10).

La sfida per un welfare più inclusivo ed efficace sembra dunque avere il consenso delle principali istituzioni internazionali. Ma come applicarlo in Africa, e secondo quali indirizzi politici?
Secondo i dati della banca mondiale gli africani che vivono in condizione di povertà estrema sono 413 milioni. La debolezza della copertura welfaristica in Africa ha origini lontane, che risalgono al periodo coloniale. Al momento della loro indipendenza la maggior parte degli Stati africani ereditarono dall’amministrazione coloniale dei sistemi di previdenza limitati ai soli impiegati del settore pubblico. In effetti le potenze coloniali si preoccuparono nel corso della loro dominazione esclusivamente di garantire una tutela pensionistica ai propri cittadini espatriati, collocati di regola presso le amministrazioni pubbliche.

Nel tempo gli Stati africani estesero questo sistema ai lavoratori del settore privato formale. Restano invece esclusi i disoccupati o le persone attive del vasto settore informale. Deriva da ciò un tasso di copertura decisamente mediocre, pari ad appena il 6% della popolazione totale(11). Il Senegal alla fine del 2015 disponeva di una cinquantina di programmi di riduzione della povertà, anche se l’insieme della spesa per la protezione sociale raggiungeva appena il 3,4% del PIL. il 60% di queste risorse era convogliato su programmi di impianto assicurativo destinati al 6% della popolazione. il restante 40% della spesa sociale copriva invece il 50% della popolazione. La quota restante del 44% degli abitanti risultava completamente sprovvista di protezione sociale(12). Il gran numero di programmi previdenziali esistenti in Senegal non è certo sinonimo di efficienza. Ogni fondo infatti è appannaggio di singoli ministeri, perciò manca una vera analisi dei bisogni condotta a livello nazionale.
Inoltre la dotazione per ogni singolo programma è molto scarsa (circa 1 miliardo di franchi CFA per ogni programma, pari a circa 150 milioni di euro), sicché le spese di amministrazione finiscono per assorbire una quota significativa delle risorse disponibili.
Il basso livello di copertura della sicurezza sociale in Africa dipende soprattutto dal ruolo marginale svolto nell’economia dal settore formale. I sistemi previdenziali erano fondati sull’ipotesi secondo cui lo sviluppo economico avrebbe contribuito ad assicurare
un impiego nel settore formale a un numero crescente di lavoratori, il cui reddito avrebbe così raggiunto un livello sufficiente a consentire l’accantonamento di una certa quota di ricchezza verso la contribuzione sociale. in tal modo si sarebbe estesa progressivamente l’obbligatorietà della sicurezza sociale e la sua estensione a sempre nuovi strati di popolazione. Si riteneva, in altri termini, che l’impiego informale avrebbe avuto un carattere provvisorio, mentre il progredire della crescita avrebbe in prospettiva aumentato il tasso di copertura dei sistemi di protezione esistenti(13).

L’evoluzione economica e del mercato del lavoro non ha seguito però queste previsioni ottimistiche. L’OIL in una ricerca dal titolo The Impact of Globalization on the Informal Sector in Africa(14) ha stimato che la dimensione media del settore informale come percentuale del PIL nell’Africa subsahariana è del 41%. ci sono molte differenze tra i vari paesi, infatti questo valore risulta inferiore al 30% in Sud Africa, mentre raggiunge il 60% in Nigeria e in Tanzania. Il settore informale è il primo datore di lavoro in Africa, rappresenta circa il 75% dell’occupazione non agricola e oltre il 70% dell’occupazione totale nell’Africa sub-sahariana. Più del 90% dei nuovi posti di lavoro creati in alcuni paesi africani sono nell’economia informale.

L’OIL definisce l’economia informale come: «l’insieme delle attività economiche dei lavoratori o delle unità economiche che – di diritto o di fatto – non sono coperte affatto o non sono sufficientemente coperte da accordi formali». La vitalità del settore informale da un lato è il segno dell’intraprendenza e della vitalità dei settori sociali coinvolti, ma è anche una risposta necessitata da una situazione economica certamente non facile. Non è un caso che l’economia più avanzata dell’Africa, quella del Sudafrica, abbia una delle più basse quote del PIL attribuite al settore informale. Ma per molti paesi africani – come in altri mercati emergenti di tutto il mondo – la scarsità di infrastrutture fa spesso sì che il settore informale sia la principale se non unica opzione di inserimento lavorativo. Questa situazione non cambierà molto presto, se è vero quanto rilevato dalla banca Mondiale sul fatto che le persone con un’istruzione superiore sono sempre più alla ricerca di lavoro nel settore informale.

Questa situazione non è certo una buona notizia per lo stato di salute del welfare africano in quanto il settore informale, per definizione, implica minori opportunità di entrate fiscali. Le imprese informali, oltre a non pagare le tasse, spesso si rendono protagoniste di fenomeni di sfruttamento quale il ricorso al lavoro minorile, ai bassi salari, a una condizione di insicurezza sul posto di lavoro. Alcuni economisti africani hanno una visione meno negativa del settore informale; ad esempio il nigeriano Fantu Cheru sostiene che «uno sguardo ravvicinato al settore informale in Africa offre uno spaccato di ciò che potrebbe essere raggiunto se le economie e le politiche finanziarie dell’Africa fossero più in sintonia con le realtà quotidiane del continente»(15). In questa concezione il settore informale sarebbe l’espressione di un’attività economica maggiormente basata sulla comunità, da cui trarre utili indicazioni per una «via africana» alla protezione sociale, senza dunque seguire in modo acritico metodi e principi «occidentali» che sono stati in gran parte screditati come inappropriati per le comunità africane.

La sfida per l’implementazione di sistemi di welfare più inclusivi rimane tutta sul campo. In questa ottica non sembra che si possa seriamente prescindere da forme di trasferimento monetario non contributivo. Programmi di questo tipo si sono moltiplicati negli ultimi anni, nella prima decade degli anni 2000 si calcolano almeno 123 programmi di questo tipo avviati in 34 paesi africani(16). Ad esempio nel 2004 il Lesotho ha adottato un regime di pensione su base universalistica, non contributivo per tutti gli anziani oltre i 70 anni. In Swaziland l’età di accesso a una misura di sostegno per le persone anziane è di 60 anni. In Sudafrica dal 2008 l’accesso alla pensione di vecchiaia non contributiva è possibile a 60 anni e non più a 65. Nel 2008 in Ghana è stato avviato un Fondo previdenziale dedicato alle persone in situazione di auto-impiego che operano nel settore informale. Lo Zambia ha permesso in quegli stessi anni anche ai lavoratori autonomi o informali di partecipare alla contribuzione sociale.
Con il concorso di istituzioni internazionali e di donor privati sono sorte numerose sperimentazioni di questo tipo, molte della quali concentrate sulla lotta alla povertà mediante il trasferimento di risorse monetarie. un’accurata ricerca condotta nell’ambito del Transfer Project(17) ha sfatato i principali luoghi comuni che circolano a proposito dei programmi di trasferimento monetario in Africa sub-sahariana(18). Contrariamente a quel che comunemente si pensa è stato dimostrato che questo genere di sostegni economici: 1) non induce un incremento di spese voluttuarie o dannose in alcol e tabacco; 2) non scoraggia gli investimenti e i risparmi; 3) non crea dipendenza e non riduce la partecipazione ad attività produttive; 4) non spinge a fare più figli; 5) non crea inflazione o distorsioni nel sistema dei prezzi; 6) non risulta insostenibile dal punto di vista fiscale.

In questo Quaderno osserveremo in modo particolare il farsi largo nel contesto africano dell’idea del reddito di base. Parlare in generale di Africa, lo abbiamo detto nelle premesse, non ha molto senso e non ci soddisfa. Perciò la nostra ravvicinata osservazione riguarderà nello specifico tre paesi: il Kenya, la Namibia e l’Uganda, che sono stati o sono attualmente teatri di sperimentazioni che si ripromettono di essere apripista per una rinnovata concezione del welfare. ci sono insomma degli attori capaci di muoversi nel difficile ma promettente contesto africano, che hanno l’ardire di superare a piè pari le difficoltà degli schemi esistenti di spesa sociale, e prefigurano la nascita di un nuovo modello, in cui i trasferimenti di denaro incondizionati e su larga scala giocano un ruolo di primo piano nel determinare l’emancipazione delle persone dalla povertà, dal bisogno, delle condizioni di vita ancestrali.
Dal continente più giovane del mondo sorgono dunque sperimentazioni e parziali soluzioni, che hanno un significato universale, da cui anche il «mondo sviluppato» può trarre ispirazione e insegnamento. È un contesto di esperienze innovativo e vibrante, che getta semi inaspettati. come quello «scovato» dall’Associazione Basic income network – Italia e qui presentato per la prima volta al pubblico, di una forma “particolare” di reddito di base in Burkina Faso, che pur assai limitata in estensione, offre spunti analitici in tutto coerenti con i più estesi interventi che vediamo all’opera ad esempio in Kenya.
Il dibattito sul reddito di base è dunque aperto anche in Africa e il continente vuole e può dire la sua anche in questo campo, con un nuovo protagonismo.

 

Note

1) Danno voce all’ansia di riscatto economica e culturale dell’Africa, tra gli altri, magazine generalisti come «Jeune Afrique», blog economici influenti come «Quartz», o in voci di intellettuali che si raccolgono ad esempio attorno agli Ateliers de la pensée a Dakar.
2) Articolo Ghielmi, Il futuro è nero. 5 motivi per guardare all’Africa, in vadoingrafica.org.
3) Mc Kynsey Global institute, Lions on the move II: Realizing the potential of Africa’s economies, in mckynsey.com.
4) OIL, World Social Protection Report 2017-19: Universal social protection to achieve the Sustainable Development Goals.
5) D. Kunzler, M. Nollert, Varieties and drivers of social welfare in sub-Saharan Africa: A critical assessment of current research, in «Sozialpolitik.ch», n. 2, vol. 2, 2017.
6) G. Esping-Andersen, The Three Worlds of Welfare Capitalism, Polity Press, cambridge 1990.
7) D. Kunzler, M. Nollert, cit., pp. 4, ss.
8) Per una lettura critica degli obiettivi del Millennio, e ciò che ne è seguito a livello di strategia globali, si legga utilmente J. Hickel, The Divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, il Saggiatore, Milano 2018.
9) F. Polet, Étendre la protection sociale au Sud: défis et dérives d’un nouvel élan, in «Alternatives Sud», n. 1, vol. 21, 2014, p.19.
10) D. Wetzel, Bolsa Família: Brazil’s Quiet Revolution, in worldbank.org.
11) K. Nyarko Otoo, C. Osei-Boateng, Défis des systems de protection sociale en Afrique, in «Alternatives Sud», n. 1, vol. 21, 2014, p. 97.
12) Banca Mondiale, République du Sénégal. Revue des dépenses de protection sociale 2010-2015.
13) K. Nyarko Otoo, C. Oseiboateng , cit., p. 98.
14) S. Verick, The Impact of Globalization on the Informal Sector in Africa.
15) F. Cheru, African Renaissance: Roadmaps to the Challenge of Globalization, Zed books, Londra 2002.
16) K. Nyarko Otoo, C. Osei-Boateng, cit., p. 103.
17) Il Transfer project è nato nel 2008 da una collaborazione tra UNICEF, FAO e Università della North Carolina. Si occupa di promuovere e di studiare i sistemi di trasferimento monetario nel continente africano, evidenziandone l’impatto della società e nella vita delle persone.
18) AA.VV. Myth-Busting? Confronting Six Common Perceptions about Unconditional Cash Transfers as a Poverty Reduction Strategy in Africa, in «research observer», n. 2, vol. 33, 2018.