In questo periodo dell’anno si parla spesso di tornare a casa per le vacanze, di viaggiare per vedere la famiglia e gli amici e di trascorrere del tempo nei luoghi dove siamo cresciuti, ricordando il passato e parlando, o anche discutendo, del presente. In questo periodo si parla spesso di politica. Questo è stato il mio caso e nelle ultime settimane varie persone mi hanno chiesto quali sono le mie opinioni politiche, da dove vengono e perché la penso così. In particolare le persone si mostrano interessate al motivo per cui sono a favore delle frontiere aperte e spesso lo mettono in discussione.

La risposta per me è semplice. Viviamo in un mondo in cui alcuni di noi hanno l’opportunità di tornare a casa durante le vacanze, di visitare la famiglia e gli amici e di passare del tempo a parlare di queste questioni. Ma viviamo anche in un mondo in cui ci sono 70,8 milioni di sfollati, che spesso non possono tornare a casa, vedere la famiglia o gli amici, o scegliere la città o il paese in cui vivere. Questo non è un sistema giusto o equo. È un sistema basato sulla fortuna, sul privilegio e sulla disuguaglianza. Per questo motivo ho passato le ultime settimane a difendere la mia convinzione che sia necessario un sistema diverso, un sistema che non si basi su confini chiusi e ambienti ostili.

Nell’ultimo anno ho visitato tre volte l’isola greca di Samos, che come Lesbo, Chios, Kos e Leros ospita rifugiati e richiedenti asilo che attraversano il Mar Egeo in fuga dalle persecuzioni, dalla guerra e dalla povertà. Nel 2015 queste isole, in particolare Lesbo, hanno avuto un ampio spazio nei media, mentre l’Europa rifletteva su quella che è stata descritta come “la crisi dei rifugiati”. Nel 2019 si parla meno di queste isole, ma il numero di persone bloccate là rimane elevato. Il Centro di Accoglienza e Identificazione (campo) di Moria, a Lesbo, è stato costruito per 2.500 persone, ma attualmente ne ospita circa 18.000 in condizioni spaventose che causano gravi traumi psichici ad adulti e bambini. Vathy, il campo di Samos, pensato per 650 persone, oggi ne ospita oltre 7.500. Ciò significa che la maggior parte di loro vive in tende o rifugi di fortuna sul ripido pendio della collina, al di fuori delle recinzioni di filo spinato e dei container del campo stesso. Le condizioni in inverno sono particolarmente pericolose perché questi rifugi non sono costruiti per resistere al vento, alla pioggia e al fango della collina, che un tempo era un uliveto. Le code per ogni pasto possono durare fino a 5 ore e non ci sono docce o servizi igienici sufficienti per così tante persone. Né ci sono abbastanza posti a scuola per i bambini, o spazi sicuri per i minori non accompagnati. Le persone sono bloccate in queste condizioni, aspettando fino a 2 anni per un colloquio sulla loro richiesta di asilo, per scoprire cosa le attende, se saranno trasferite in Europa o rimpatriate in Turchia (considerata un paese terzo sicuro), o nei loro paesi d’origine. Hanno pochissima scelta o autonomia quando si tratta di prendere questa decisione. La loro vita e il loro futuro sono nelle mani di un funzionario con il potere di stabilire dove andranno, se un bambino potrà essere ricongiunto ai suoi genitori, se fratelli e sorelle verranno separati perché uno è minorenne e l’altro ha 18 anni, se potranno rimanere in Grecia per iniziare una nuova vita o se dovranno andare da un’altra parte.

Un sistema globale che permette ad alcune persone di viaggiare per lavoro, di vedere la famiglia e gli amici, di andare in vacanza grazie al privilegio del loro passaporto, ma che ne intrappola altre su un’isola in condizioni terribili in attesa di una decisione sul loro futuro non è un sistema giusto. Non è un sistema equo e non è un sistema sostenibile. Per questo motivo, quando nelle ultime settimane mi hanno parlato del valore delle frontiere io l’ho messo in discussione. Perché le frontiere sono chiuse per alcuni e aperte per altri e questa è una situazione che dobbiamo rifiutare mentre entriamo in un nuovo decennio. Coloro che godono del privilegio delle frontiere aperte hanno il dovere di sfidare il sistema in nome di quelli che non lo hanno, di lottare per il cambiamento e di esigere condizioni migliori per le persone costrette a vivere in campi sovraffollati su isole ai confini dell’Europa che i media e i politici hanno volutamente dimenticato.

Traduzione dall’inglese di Anna Polo