La situazione interna all’Eritrea di Isaias Afewerki, al potere dal 1994, si fa sempre più esplosiva. I giovani, schiavi in patria, stanno lentamente abbandonando il paese. La Chiesa cattolica subisce pesanti ritorsioni, ma il dittatore resta impunito.

«Il Servizio militare obbligatorio e a tempo indeterminato in Eritrea è una forma di schiavitù.Ve lo dico perché l’ho provato sulla mia pelle: è stato come tornare indietro ai tempi della schiavitù legale, un salto nel buio della storia. Come perdere del tutto la propria umanità. Ci facevano uscire per le esercitazioni di mattina presto anche se eravamo ammalati e ci punivano». A raccontarcelo è Amna I., una donna eritrea di mezza età che oggi vive in Gran Bretagna e fa la mediatrice culturale. L’abbiamo incontrata assieme ad altre decine di eritrei durante una manifestazione contro il regime di Isaias Afewerki, organizzata a settembre scorso a Bologna dal Coordinamento Eritrea Democratica. «Io sono scappata dall’Eritrea attraverso il confine con il Sudan – dice -: per arrivare ho impiegato cinque giorni anche se normalmente ci vogliono poche ore. Ma la mia famiglia è ancora lì: per loro e per tutti gli altri chiedo che la comunità internazionale prenda finalmente posizione contro questo regime criminale!».

Disertori fatti sparire per sempre

Dopo la lunga guerra con l’Etiopia, terminata nel 1991 con la conquista di Asmara, la popolazione va a referendum e nel 1993 sotto l’egida dell’Onu, sceglie l’indipendenza. Il 24 maggio 1993 il paese è finalmente libero, ma da quel momento in poi cade nelle mani del presidente-padrone, Isaias Afewerki. Amna ci ha spiegato che agli inizi, quello che viene definito “servizio per la patria” (e che comprende anche una sorta di servizio civile, ossia lavori forzati ad ogni livello) aveva una durata di soli sei mesi ed era ben visto dalla popolazione che voleva rendersi utile al proprio Paese, finalmente libero dal dominio etiope.

«Quando è stato imposto per la prima volta, tutti erano contenti di servire il paese – ricorda Amna – poi le cose sono cambiate: immaginate che da allora ci sono persone che ancora stanno facendo il servizio civile e militare e se si oppongono spariscono nel nulla. Vengono messe in un container e non si sa più nulla di loro».

L’audacia e la buona sorte hanno aiutato molti dei ragazzi eritrei scappati dal regime a rifarsi una vita in Italia, come nel caso di Abraham Tesfai, 30 anni, che il 19 settembre scorso si è laureato in Agraria a Bologna. Da lontano Abraham continua a battersi per la libertà del suo paese.

La resilienza di Abraham

«Sono fuggito dall’Eritrea a 17 anni – ci racconta – ho fatto il servizio militare ma siccome era troppo pesante, dopo un anno sono scappato. Un uomo che ha meno di 50 anni non può uscire dall’Eritrea, e siccome non ci davano il permesso abbiamo tentato la fuga». La storia di Abraham ha dell’inverosimile e il lieto fine è anche frutto dell’intervento di un sacerdote, don Giovanni Nicolini che a Bologna lo aiuta a sistemarsi. Dodici anni fa Abraham arriva in Sudan assieme ad altri compagni, passa per la Libia e lì finisce in prigione: «Ne sono uscito per miracolo – racconta – La prima volta che ho provato ad imbarcarmi è andata male. Il gommone si è rovesciato, quelli che sapevano nuotare sono tornati in Libia e io con loro. La seconda volta è andata bene, sono arrivato a Lampedusa, da lì a Caltanissetta, e poi il controllore ci ha fatto scendere a Bologna. Per questo sono rimasto qui, ma poi non avevo da dormire e da mangiare e ho provato ad andare in Svizzera, ma mi hanno rispedito in Italia e allora sono ritornato».

Nel 2009 a Bologna sarà don Giovanni Nicolini a trovargli un lavoro e a dargli una speranza. «Ho frequentato la scuola serale – racconta – mi sono iscritto all’università lavorando e adesso mi laureo. La mia è una storia di successo, ma molti miei amici invece non ce l’hanno fatta. Noi eritrei vogliamo cambiare l’Eritrea ma se l’Italia continua a collaborare con lui (non chiama mai per nome Afewerki, ndr), allora lui avrà più forza, diplomazia e soldi».

Nel paese più travagliato del Nord Africa, la situazione è oramai esplosiva: «Non stiamo scherzando – ripete Abraham. Stiamo parlando di giovani che muoiono ogni giorno. Una storia che ci sta distruggendo: se ogni mese mille, duemila persone escono dall’Eritrea, tra poco non esisterà più il paese».

Chiesa Cattolica nel mirino

A far notizia negli ultimi mesi è stata la ritorsione del regime contro la Chiesa cattolica: 22 ospedali cattolici chiusi, le strutture sequestrate dallo Stato, gli ammalati sottratti a quelle cure. Ma nel mirino di Asmara ci sono anche 50 scuole e 100 asili gestiti dalla Chiesa locale. Così, a chi attribuiva alla ventennale guerra con l’Etiopia e al conseguente embargo durato nove anni (rimosso dall’Onu a novembre 2018), il principale elemento destabilizzante per il paese, è stato chiaro che il nemico non viene da fuori ma da dentro. Il nemico dell’Eritrea è l’Eritrea stessa. O meglio il potere che la rappresenta. Lo sanno bene le diplomazie occidentali che però continuano ad ignorare i moniti delle Nazioni Unite e i rapporti delle varie agenzie Onu su Afewerki.

Regime spietato

Il regime in questo momento è funzionale agli interessi della politica occidentale nel Corno d’Africa. Sono interessi economici, di contenimento dei flussi di profughi. Interessi geo-strategici per la posizione dell’Eritrea», ci spiega il giornalista Emilio Drudi, esperto di Corno d’Africa e di storia del colonialismo italiano. Drudi collabora con il Coordinamento Eritrea Democratica che si batte per una informazione corretta e spinge per una presa di posizione politica dell’Italia. Le prime “rivelazioni” internazionali sulle atrocità del despota arrivano il 26 giugno 2015: nelle 484 pagine scioccanti del Report of the commission of inquiry on human rights in Eritrea si alternano testimonianze, disegni delle torture subite (che faranno il giro del web) ed analisi di esperti della Commissione d’inchiesta sui diritti umani. L’accusa
al regime è di crimini contro l’umanità.

Da quel momento in poi il mondo non potrà più fingere di non sapere. Di formazione marxista (per questo ideologicamente “accettabile” per gran parte delle formazioni di estrema sinistra in Europa) Afewerki, militante del Fronte per la liberazione dell’Eritrea, è uno dei padri dell’indipendenza dall’Etiopia. La sua storia somiglia alle tante storie di personalizzazione del potere e trasformazione delle rivoluzioni in spietati regimi. Il “Che Guevara dell’Eritrea” si rivela uno spietato dittatore che fa fuori piano piano anche i leader dell’indipendenza a lui contrari e tutti coloro che si oppongono al suo potere personale. «Nel 1998 – ci spiega Emilio Drudi – con la scusa della guerra ripresa contro l’Etiopia, il Paese viene ulteriormente militarizzato. La Costituzione (ottima sulla carta) da allora è lettera
morta. Siamo in guerra, il paese deve rimanere mobilitato. Nei primi due anni il conflitto provoca 80mila morti. Nel 2000 ci sarà una tregua d’armi ad Algeri, per capire a chi appartiene il villaggio di Badmè, pomo della discordia. L’arbitrato internazionale stabilisce che è dell’Eritrea, ma lungo la linea di confine ci sono altre situazioni simili».

Violazioni e soprusi impuniti

Da quel momento in poi, e fino alla firma della pace di Gedda con l’Etiopia, il 16 settembre 2018, prosegue una guerra non-guerreggiata, a bassissima intensità, che giustificherà riforme liberticide in politica estera ed interna. In questo quadro di violazioni e soprusi va contestualizzata l’enorme beffa ai danni della Chiesa cattolica e della popolazione più vulnerabile: la chiusura degli ospedali con conseguente confisca delle strutture. «Davvero, non riusciamo a capire su quali basi il governo abbia maturato questa decisione – ha dichiarato padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo e paladino dei diritti dei connazionali.  I nostri ospedali curavano ogni anno 200mila persone, circa il 6% dell’intera popolazione eritrea». In totale sono oggi oltre 30 i presidi sanitari costretti a chiudere i battenti: «Questo rappresenta l’ennesima violazione alla libertà di scelta, oltre che un danno per la popolazione più povera che non può permettersi di affrontare spese mediche per curarsi», conclude Zerai.

La Chiesa in effetti non è nuova a questo genere di attacchi: lo scorso 12 giugno uomini in divisa si erano già presentati in 21 centri sanitari di proprietà della Chiesa pretendendo la consegna immediata delle chiavi. La Santa Sede teme ora per i propri istituti scolastici: in qualsiasi momento Asmara potrebbe ordinare il “passaggio di consegne” delle 150 strutture scolastiche gestite dalla Chiesa cattolica e di fatto l’operazione è già iniziata. Human Rights Watch, organizzazione in difesa dei diritti umani, ha scritto diversi report annuali sulle violazioni di regime e in una delle recenti analisi dice che «la minaccia proveniente dall’Etiopia è stata sempre usata in precedenza per giustificare questa politica, ma tuttora non ci sono segnali di cambiamento. Il servizio nazionale rimane il principale motore dell’esodo di migliaia di giovani eritrei che affrontano con coraggio viaggi pericolosi per raggiungere la salvezza all’estero». Ma come è possibile che questa dittatura repressiva e sanguinaria non sia presa di mira e che le risoluzioni delle Nazioni Unite restino lettera morta? Questo è il quesito che oggi i giovani eritrei rivolgono all’intera comunità internazionale e ai governi: chiedono di agire e prendere misure contro il dittatore prima che sia troppo tardi.

di Ilaria de Bonis, pubblicato su Popoli e Missione