La percezione nelle metropoli contemporanee forse non è così evidente da far sobbalzare, ma nel continente africano l’emergenza climatica ha già proporzioni enormi. Il caso del Lago Ciad.

Sbeffeggiare Greta Thunberg non è solo offendere una ragazza che ha fatto della battaglia contro i cambiamenti climatici una ragione di vita. Ma vuol dire offendere l’intelligenza dell’umanità intera, della comunità scientifica, di parte di quella politica, non molto vasta per la verità.

Infatti, si fa presto a parlare di cambiamenti climatici. La percezione nelle metropoli contemporanee forse non è così evidente da fare sobbalzare. Oppure ci si indigna per il possibile crollo di un ghiacciaio sul Monte Bianco. Ma basta spostarsi un po’ più a Sud e cominciare ad attraversare il deserto del Sahara, percorrendo le piste battute dai migranti in senso contrario, ci si imbatte, andando in direzione del Sahel, in uno straordinario lago, quello chiamato Ciad. Uno specchio d’acqua che, oggi, è poco più di una pozzanghera, ma che solo nel 1970 viveva ancora del suo splendore. In quegli anni, infatti, la superfice dello specchio d’acqua era di circa 26mila chilometri quadrati, chilometro più chilometro meno, e oggi a stento arriva a 5mila. Insomma una diminuzione dovuta ai cambiamenti climatici, alla pressione dell’uomo che su quelle sponde ha cercato una vita dignitosa. Il lago, qualche decennio fa la garantiva, oggi, a stento, garantisce la sopravvivenza di pochi.

Negli anni d’oro il Lago Ciad dava lavoro, direttamente e indirettamente, a circa 40 milioni di persone e forniva acqua per l’irrigazione a 20 milioni di persone. Tutto ciò non c’è più. E i responsabili, oltre ai cambiamenti climatici, sono l’uomo, le guerre che rimangono una costante nell’area, e le migliaia di persone che su quelle sponde mobili e precarie hanno trovato rifugio, che sono fuggite dagli orrori dei loro paesi. Il Lago Ciad, infatti, bagna (un eufemismo oramai) quattro Stati: Niger, Camerun, Nigeria e Ciad. Si trova proprio all’intersezione di quei quattro paesi.

Per conquistarsi una parte delle sue preziose acque – come scrive Raffaele Masto su Africarivista.it – in epoca coloniale Germania, Francia e Gran Bretagna si fecero letteralmente una lunga guerra diplomatica per disegnare i confini in modo da poter sfruttare le acque e la pesca di questa formidabile fonte di una delle regioni più aride del mondo. Oggi non lo farebbero più. La presenza di questi paesi, nel Sahel, è di tutt’altra natura, militare in contrasto al terrorismo jihadista che imperversa in quell’area. Ma anche perché le rive del lago sono mobili, precarie, sono insane come le sponde delle paludi e, soprattutto, non sono più la fonte di una formidabile ricchezza come lo erano solo qualche decennio fa.

La scomparsa del lago, indubbiamente, è una combinazione perfetta tra cambiamenti climatici e pressioni dell’uomo. Le Nazioni Unite hanno calcolato che, oggi, sulle sponde del Lago e sugli isolotti emersi per il prosciugamenti dello stesso, vivono circa 4milioni di persone fuggite dalle guerre del Sahel. Persone che usano l’acqua per sopravvivere e la inquinano. L’aumento della temperatura, la rapida evaporazione delle acque e i comportamenti umani hanno reso questo lago una pozzanghera. Anche qui occorre fare una distinzione. Se dei cambiamenti climatici, che hanno mutato le abitudini di milioni di persone in Africa, siamo un po’ responsabili tutti, quei 4 milioni di rifugiati non lo sono, perché sono fuggiti dalle feroci scorribande degli jihadisti di Boko Haram.

I cambiamenti climatici, inoltre, hanno cambiato le abitudini di milioni di persone che vivono nei quattro paesi bagnati dal lago Ciad. Sono cambiati assetti economici, abitudini alimentari, distruzione di interi ecosistemi. In una frase: una crisi umanitaria che sta coinvolgendo oltre 30 milioni di persone.

Tutto ciò, infine, ci riguarda da vicino. Per quanti giorni, mesi o anni, quei 30 milioni di esseri umani sopporteranno la disperazione di una vita che non ha niente da offrire? Per quanto tempo resisteranno alla tentazione di puntare verso Nord e attraversare il Mediterraneo? Invece di sbeffeggiare Greta Thunberg, forse, dovremmo darle retta, per lo meno ascoltarla.

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