Perché non vediamo l’urgenza e l’importanza del cambiamento climatico? Qual è il ruolo dell’arte e della letteratura in questo “occultamento” e più in generale nella crisi ambientale oggi in atto? Questi gli interrogativi da cui prende le mosse il saggio “La grande cecità – il cambiamento climatico e l’impensabile” scritto dallo scrittore, giornalista e antropologo indiano Amitav Ghosh.

La grande cecita 01 (1)La scorsa settimana si è celebrata in tutto il mondo la Settimana per il Clima, culminata con lo sciopero globale di venerdì 27 e con alcune simboliche e importanti iniziative, come quella italiana di “Requiem per un ghiacciaio”, ispirata alla “veglia funebre” islandese.

Il 18 agosto, infatti, l’Islanda, la Terra dei Ghiacci, ha inaugurato il monumento in memoria del ghiacciaio Okjökull, Ok per gli amici. La targa è una lettera al Futuro: “Questo monumento è per riconoscere che noi sappiamo cosa sta succedendo e sappiamo cosa occorre che venga fatto. Solo voi sapete se lo abbiamo fatto”.

Sappiano cosa sta succedendo? Sappiamo cosa occorre che venga fatto? Lo faremo?

Nel 2016 Amitav Ghosh, autore del bellissimo “Cromosoma Calcutta” e del “Palazzo degli specchi”, ha scritto un saggio per rispondere a simili interrogativi: perché questa Grande Cecità? Perché non vediamo l’urgenza e l’importanza del cambiamento climatico? La domanda e le risposte de “La grande cecità – il cambiamento climatico e l’impensabile” (editore Neri Pozza) mi sembrano pressanti come due anni fa, quando ho letto il libro, nonostante l’attenzione cresciuta negli ultimi mesi grazie a Greta Thunberg e agli studenti.

Ghosh interroga innanzitutto se stesso e gli scrittori: perché nella nostra epoca arte e letteratura vengono “praticate per lo più in modo da nascondere la realtà”? La risposta arriva, ironicamente, scrivendo un saggio: in una bella pagina Ghosh ci racconta che sarebbe il primo a non credere al cataclisma del quale è stato testimone e vittima, se lo leggesse in un romanzo.

È uno sguardo davvero molto originale che, nello svelarci perché il cambiamento climatico resiste alla forma-romanzo dice moltissimo su di noi e ci rende più facile vedere ed accettare le nostre resistenze. E dice moltissimo sul romanzo, la scrittura. E sulla nostra cultura, che tanto amiamo, consumiamo e produciamo e alla quale Ghosh attribuisce grande responsabilità nel trasmettere e amplificare desideri “che sono fra i principali motori di un’economia basata sui combustibili fossili”.

Se siamo tutti ciechi e quello che accade è impensabile, perché altamente improbabile secondo standard di normalità, qual è la via? La capacità di immaginare, scrive Ghosh: immaginare altre possibilità, altri stili di vita, uscendo dallo “scenario individualizzante nel quale siamo intrappolati. La crisi climatica ci sfida proprio a immaginare altre forme di esistenza umana, perché se c’è una cosa che il surriscaldamento globale ha perfettamente chiarito è che pensare al mondo solo così com’è equivale a un suicidio collettivo”. Cos’è la scrittura, se non la capacità di immaginare e farci immaginare? “Il narrare rende possibile affrontare il mondo al congiuntivo”.

La Grande Cecità è un testo rivelatore, molto documentato, ed è soprattutto un bel libro, anche se non proprio una lettura disinvolta: aiutato da una grande scrittura e descrizioni memorabili, affronta controcorrente temi controversi e complessi. Non avevo mai riflettuto su come l’arte contemporanea, così astratta, contribuisca a creare un mondo dove la realtà e la materia non hanno posto. Né sapevo che il petrolio, per sua stessa natura, è così determinante nel creare un mondo dove la collettività, la comunità, le cose “vere” che si possono toccare, hanno pochissimo spazio.

Il carbone, con i suoi luoghi – le miniere, i lavoratori che possono allearsi e scioperare, i camion e treni – che si possono fermare, è ben diverso dal petrolio con le sue condutture, non-luoghi che attraversano enormi distanze, e le sue fortezze scintillanti – le raffinerie. Di qui una massa di operai, di là un manipolo di ingegneri: “Il petrolio è stato straordinariamente efficace nel togliere le leve del potere dalla mani del popolo”.

Gli islandesi, profondamente colpiti nella loro stessa identità dalla morte dei ghiacciai, dalla perdita di circa 10 bilioni di tonnellate di ghiaccio l’anno, vogliono essere testimoni e dirci: lo sappiamo, tutti. Questi corpi fatti di ghiaccio sono le maggiori riserve d’acqua dolce del pianeta e custodiscono al loro interno la storia dell’atmosfera, scrive Cymene Howe, antropologo della Rice University di Houston che ha dedicato a Ok un documentario. Ma se non lo vediamo, come potremo fare quello che occorre venga fatto?

L’articolo originale può essere letto qui