Cat in the Wall – Concorso internazionale

Registi: Mina MIleva e Vesela Kazakova, Bulgaria – 2019 – 92’ – v.o. bulgaro/inglese

Lo sviluppo fagocitante delle metropoli, la difficoltà della convivenza nei quartieri popolari e il diritto alla casa sono i temi di Cat in the wall, produzione bulgara di Mina Mileva e Vesela Kazakova, due valide e sperimentate documentariste per la prima volta impegnate in una fiction, inserita nel concorso internazionale.

Una madre single bulgara (Irina Atanasova) vive nel sud-est di Londra nel quartiere multiculturale di Peckham con suo figlio e con suo fratello in un grande complesso di case popolari nel quale vi sono persone provenienti da varie parti del mondo, immigrati comunitari ed extracomunitari. La vita quotidiana è complicata. Irina non trova lavoro e pur essendo architetto lavora in un locale come barista (condizione che si ripete in diversi film presentati a Locarno ad esempio in Baghdad in my shadow). Il fratello, laureato in storia, è disoccupato e trascorre il tempo preparando la documentazione per partecipare ai concorsi.

Sono immigrati di prima generazione e Irina, pur essendo una madre single, sembra non aver diritto ad alcun sostegno da parte del welfare britannico. Sostegno che comunque non vorrebbe, lei vuole lavorare, non essere mantenuta dallo Stato, come afferma più volte con orgoglio misto a disperazione.  Hanno acquistato il loro appartamento, ma ora il Comune di Londra ha deciso di ristrutturare l’edificio cominciando con la sostituzione degli infissi: l’amministrazione si farà carico degli affittuari, mentre i proprietari dovranno pagare di tasca propria quanto di loro competenza.

Irina non ha i soldi per sostenere le spese e cerca solidarietà negli altri proprietari organizzando un’assemblea condominiale nella quale irrompono le storie differenti dei mille mondi che convivono in quel palazzone. Nel frattempo il figlio di Irina e un’altra ragazzina di una famiglia extracomunitaria, che vive in un appartamento attiguo, rivendicano ambedue la cura di un gattino; ben presto ne nasce un conflitto tra i due nuclei familiari sullo sfondo di una condizione di povertà, condivisa, ma non riconosciuta come un elemento che può accumunare esistenze e costruire alleanze e solidarietà. Lo scontro si trasforma ben presto in una lotta tra poveri che non tarda a far emergere sentimenti segnati dal razzismo.

Nel frattempo – ed è una storia vera – il gatto conteso dalle due famiglie si ripara in un muro dal quale non pare intenzionato, o non è capace, di uscire, complicando ulteriormente le vite di migranti, piccoli truffatori, poliziotti e brexiteers imborghesiti.

Metafora della vita di Irina che, acquistato l’appartamento, forse incautamente, ora si trova a sua volta intrappolata in una vicenda esistenziale dalla quale non vede via d’uscita.

Le ansie dei protagonisti sono ulteriormente incentivate dall’incertezza che la Brexit procura a molti di loro e che diventa oggetto di accese discussioni, mentre la politica urbanistica del Comune di Londra è analizzata nelle sue differenti sfaccettature e posta sotto accusa da un universo che sembra obbligato a restare autoreferenziale, esterno ed estraneo alla complessa vita della metropoli londinese. Metropoli percepita come una presenza lontana, spesso evocata, ma mai visibile nella sua dimensione concreta e palpabile, se non negli interventi della forza pubblica che mostra evidenti pregiudizi nei confronti degli immigrati.

L’espulsione delle popolazioni socialmente deboli in zone sempre più periferiche della principale metropoli europea non trova, nel film, alcuna opposizione collettiva da parte degli immigrati e dei ceti popolari accomunati nella condizione di vita materiale e nel destino del loro futuro prossimo. Lo scontro tra poveri invade la scena animato da sguardi che non riescono ad andare oltre la condizione individuale, facendo fallire anche il tentativo di Irina di organizzare una prima, semplicissima risposta collettiva.

Un film riuscito, divertente, che con uno stile da commedia non rinuncia ad essere graffiante ed estremamente attuale, anche perché le due registe conoscono molto bene l’argomento avendo trascorso un periodo della vita in un appartamento nei casermoni dell’edilizia popolare. Una forte denuncia sociale realizzata attraverso una sequela di amari sorrisi.

The Last Black Man in San Francisco – concorso internazionale

Regista: Joe Talbot, Stati Uniti – 2019 – 121’ – v.o. inglese

Opera prima del regista statunitense Joe Talbot, inserito nel concorso internazionale, The last black man in S. Francisco è stato finanziato attraverso il crowdfunding.

Una coppia di amici, cittadini afro-americani di classe media, rivendicano il diritto di abitare in una lussuosa casa vittoriana situata nel Fillmore District, quartiere storico di S. Francisco oggi abitato dall’upper class bianca.  Tale diritto, secondo i due protagonisti, discende dal fatto che la casa era stata costruita dal padre di uno di loro e abitata dalla sua famiglia. Il quartiere, una volta animato da operai e artigiani e con una presenza multietnica, nel tempo si è trasformato ed ora ha un solo colore, quello bianco. Jimmy e Montgomery vivono la casa con un grande senso di appartenenza, se ne curano per mantenerla sempre in ottimo stato, senza averne i mezzi economici e senza curarsi se è abitata da una coppia bianca momentaneamente altrove o se è in vendita. Anzi in tale occasione non esitano ad occuparla, o meglio a riprendere possesso di quella che per i due protagonisti è la loro naturale dimora.

La conclusione della vicenda sta già tutta nel titolo: l’ultimo nero lascia il Fillmore District, quartiere abitato da una classe bianca medio-alta che, lo si vede chiaramente durante la visita guidata organizzata per presentare la casa, ha una differente concezione dell’abitare, fondata sulla mobilità e sulla funzionalità della casa a nuovi stili di vita che devono prevedere la possibilità di un perenne movimento. Concezione molto lontana dal sentire dei due protagonisti di una casa come appartenenza e custode delle radici dell’esistenza.

Una commedia brillante, piacevole, ma che, come Cat in the wall, non rinuncia alla denuncia di una gentrification che espelle in luoghi sempre più periferici non solo i ceti popolari ma, in questo caso, anche la middle class nera. Anche in questa pellicola è assente qualunque risposta collettiva, anzi la vicenda è vissuta come una storia strettamente personale, familiare. Ma questo vuoto non rende meno interessante il film, anzi forte è l’impressione che quest’opera come altre presentate nel festival, affidino al cinema un forte ruolo sociale e forse anche, svelando i processi e gli interessi in gioco, un tentativo di stimolare la nascita di una risposta meno individuale.