Puozze sculà. Il mio amico racconta che a Napoli è forse l’insulto più pesante. Un augurio di morte atroce, “che tu possa morire colando”, sistemato su un sedile apposito, adagiato su un grosso buco in modo tale che i fluidi corporali sgocciolino verso il basso per lasciarti totalmente rinsecchito, mummificato, fatto di piccole ossa fragili, polvere alla polvere. Dicono che a Ischia nei sotterranei del convento delle Clarisse si trovi una sala chiamata Putridarium in cui le monache morte davvero subivano un simile trattamento, per rinsecchire il corpo, mummificarlo. Un atto di devozione per sora nostra Morte corporale che la saggezza popolare trasformò in insulto. Puozze sculà.

Cidadão de bem, è una delle parole più usate negli ultimi cinque anni, per auto definirsi come membro rispettabile della società, letteralmente: cittadino “di” bene. C’è una sottile ma enorme differenza tra cittadino per bene e cittadino di bene. Una semplice preposizione che però svela un modo di pensare, di essere, di vedere e interpretare il mondo. Dicendo “cittadino per bene” (in portoghese: cidadão do bem, cittadino “del bene”) significa quello che tutti immaginiamo, una persona a modo, per bene, appunto. Dire invece Cidadão de bem, indica una persona con un forte potere d’acquisto, un cittadino ricco, una espressione trasformata dal senso comune, diventata sinonimo di brava persona. Bem, bene, come in italiano ha molteplici significati, tra i quali quello di ricchezza, i Beni che si posseggono. Basta avere l’apparenza di chi possegga beni, da essere accomunato a una brava persona: ricchezza e qualità morali camminano sempre insieme. E se così è, quindi il contrario deve essere vero: la povertà equivale a un difetto di personalità, se sei povero è perché non fai mai abbastanza per non esserlo. Povertà, miseria, mancanza di dignità. Fu un equivoco di traduzione a stravolgere il significato delle preposizioni Di e Per, cittadino di bene, cittadino per bene. The Good Citizen: era così nominata la pubblicazione mensile del Ku Klux Klan alla quale molti dei Cittadini “di bene” si ispiravano per sapere come trattare il problema degli schiavi. Il Brasile fu l’ultimo paese ad abolirne il traffico e quando lo fece fu per un mero calcolo economico. Era più conveniente importare lavoratori napoletani, calabresi e siciliani, che mantenere una massa di diseredati. Mentre lo schiavo lavorava al ribasso per ingannare il padrone, sabotarne il raccolto, cercando di fuggire e rubare tutto quello che avesse a tiro, gli italiani immigrati portavano con essi tutta un’etica peculiare, una moralità personale e culturale in cui il lavoro (trabalho) non era inteso come un tortura inflitta dal padrone, ma come un mezzo per migliorare la propria condizione di cittadino che aspira a una ascensione sociale, a diventare un cittadino “di” bene. Dignità e organizzazione, quindi, contro svogliatezza e abbandono, erano convinti che così fosse. I migranti italiani sostituirono gli schiavi, il caffè piantato da mani africane venne raccolto e insaccato da braccia napoletane, calabresi, siciliane, in un lavoro infernale fino alla crisi economica quando tutto cambiò. E i nostri migranti approdarono a São Paulo e con la loro etica del lavoro soppiantarono ogni concorrenza, si trasformarono in operai e piccoli commercianti. Ancora una volta il lavoro considerato come sacrificio, proiettato verso il futuro contro la logica della sopravvivenza quotidiana del discendente di schiavi, ormai reso completamente inutile e spinto ad abitare sempre più lontano nelle sue baracche, nelle sue favelas. E che si rendesse utile una buona volta! Sì può sempre prendere una scopa e pulire, lavare i piatti, scaricare un camion. Forza lavoro, puro corpo, sudore, fatica, da sempre per sempre, e in silenzio, l’abbondanza di mano d’opera disposta a tutto è sempre stata enorme. La parola portoghese che definisce il lavoro, Trabalho, viene pari pari dal latino: Tripalium, un terribile strumento di tortura, composto da tre pali a cui si legava il prigioniero nella posizione propizia all’impalamento. Lavoro, Trabalho, Travaglio, Sofferenza, Tortura, Tripalium. Il lavoro, si sa, non nobilita proprio nessuno.

Cinque anni fa i Cittadini “di” bene invasero il paese contro la nuova massa di diseredati, contro gli ex schiavi che avevano osato salire la scala sociale per entrare nelle università, viaggiare in aereo, comprare una casetta. I governi Lula e Dilma permisero un avanzo economico mai visto prima, un fatto che i Cittadini “di bene” non poterono tollerare. Dilma venne dimessa e Lula imprigionato. Oggi il grande traditore Michel Temer, uno dei principali articolatori del processo di impeachment è stato arrestato con tanto di armi spianate e telecamere in faccia. Il golpe nel golpe, una specie di notte dei lunghi coltelli, una resa dei conti tra i gangster che comandano il paese, la magistratura, la finanza. E alla finestra i generali golpisti a vedere di nascosto l’effetto che fa.

Gridano i Cittadini “di” bene davanti alle fiamme che divorano la favela. Gridano i loro insulti e il loro entusiasmo, le baracche di cartone bruciano, bruciano i pochissimi beni di veri cittadini per bene colpevoli solo di essere discendenti di quegli schiavi sostituiti dai napoletani. Cacciati via dalle fazendas arrivarono a milioni nelle città, inventarono modi e forme di sopravvivenza, occuparono i terreni abbandonati e costruirono le loro case di cartone. Oggi le chiamano favelas. I cittadini “di” bene, non li sopportano, anzi, li odiano proprio, con tutta la virulenza di cui un cittadino “di” bene è capace. Col passare del tempo privatizzarono i servizi sociali da renderne impossibile l’accesso a chi non fosse del loro gruppo e in modo tale da poterne usufruire esclusivamente; enormi masse di popolazione si trovarono così letteralmente abbandonate a se stesse, senza accesso ai diritti che pensavamo inalienabili; l’abisso che divide le classi serve a questo: noi qua, voi lá. Oggi vogliono privatizzare lo Stato, e ci stanno riuscendo. La favela brucia, trecento famiglie ai bordi della strada impietrite dall’orrore osservano andare in fumo i loro pochi averi, mentre i cittadini “di” bene passano con le macchine gridando insulti e lodando il fuoco purificatore. Il mio amico dice che per quella favela era ormai cominciato il conto alla rovescia. Lo sgombero forzato sarebbe avvenuto la mattina successiva all’incendio. Sgombero forzato, passano le ruspe, quelle di Bolsonaro, quelle di Salvini, sono tutte uguali le ruspe. Si fanno sloggiare trecento famiglie senza offrire una alternativa, ci passiamo sopra con le ruspe, sui rom, sui migranti, sui miserabili senza patria di ogni terra, via sti nigar, fora di bal.

I cittadini “di” bene, urlano il loro odio. La gente sta morendo bruciata viva e loro urlano in festa, strombazzano dalle loro macchine, pubblicano in rete la loro esultanza per potersi rivedere, la domenica alla festa di famiglia, e nei secoli a venire. Al pronto soccorso, l’impronta di un piede insanguinato di chi non ha resistito alle ferite, cremato, liquefatto, squagliato, sciolto, una persona senza nome trasformato in un putridarium umano tra gli insulti dei cittadini “di” bene.

Oggi ho sognato che abitavo in una città mostruosa, un enorme Putridarium in cui si urla di gioia al fuoco quando le ruspe di Bolsonaro e Salvini passano sulle baracche in fiamme di un favela, e non rimane altro che una impronta di sangue sul pavimento freddo di un pronto soccorso di periferia, il corpo bruciato, liquefatto, cremato, squagliato di notte mentre il buio oscura anche le fiamme e la notte abbracciata al mondo nelle profondità abissali del sonno della ragione che genera i desideri di morte dei cittadini “di” bene, gli insulti al mio popolo morto, la morte, il lavoro, travaglio, trabalho, puozze sculà, tripalium, tripalium.