Ho partecipato a Milano alla manifestazione studentesca #fridaysforfuture e ne sono rimasto realmente impressionato, forse 100mila, una marea di giovanissimi con manifesti e cartelli che testimoniavano un lavoro preparatorio non indifferente. Ho domandato ad alcuni di loro come pensavano di dare continuità alla loro azioni: le risposte, per quanto semplici, esprimevano la necessità di intrecciare interventi globali con il cambiamento della propria vita quotidiana. “Diremo ai nostri genitori di diminuire i consumi energetici a casa, di selezionare i rifiuti, di evitare la plastica – mi ha risposto una ragazza 14enne, aggiungendo subito dopo – noi veniamo da San Donato Milanese e ben conosciamo le responsabilità dell’Eni e di società quali la Saipem”.
In piazza, a riempire le piazze in tutto il mondo, c’era la generazione“no future” sulla quale si abbattono contemporaneamente le conseguenze della crisi economica e dei cambiamenti climatici, ambedue prodotti di questo modello di sviluppo. Il rischio di una catastrofe planetaria, derivante dal surriscaldamento del pianeta, s’intreccia con l’assenza di prospettive future nell’ambito lavorativo e con la costante distruzione del welfare che consegna la loro vita nelle mani del mercato, privandola di ogni protezione sociale.
La protesta di questi giovani non nasce all’improvviso; il messaggio di Greta Thunberg, amplificato dai media e in particolare dai social, ha fatto da detonatore e ha riportato alla luce le ragioni del movimento contro la globalizzazione antiliberista che riempì le piazze di Seattle nel 1999, poi le aule delle università di Porto Alegre e ancora la piazze e i convegni di Genova nel 2001. Quei contenuti riemergono attraverso percorsi carsici; allora decine di migliaia di coetanei di quelli che oggi sono in piazza denunciavano i rischi della globalizzazione neoliberista.
A Genova Walden Bello, sociologo delle Filippine, sosteneva che l’attuale sviluppo del capitalismo avrebbe provocato drammatici cambiamenti climatici; da Korogocho, dalle discariche di Nairobi, padre Alex Zanotelli prevedeva un continuo ricorso alla guerra per proteggere le ricchezze di pochi; dal Forum Sociale Mondiale Susan George, del Transnational Institute di Amsterdam, annunciava che se non si fosse fermata la finanziarizzazione dell’economia una crisi spaventosa avrebbe travolto l’Europa e non solo. Non ci hanno creduto e le conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Susan George, aprendo il Social Forum di Genova nel 2001, diceva: “Questo è il primo movimento di massa nella storia che non sta chiedendo nulla per se stesso, ma vuole semplicemente giustizia per il mondo intero”. Oggi, a distanza di 18 anni, questi giovani hanno la consapevolezza che in gioco c’è il loro stesso futuro, in un mondo dove l’8,6% possiede l’85,6% della ricchezza (Credit Suisse 2017).
“There’s no Plan(et) B”. “System change, not climate change”, “Stop climate change, start cultural change”. Dagli slogan e dai cartelli visibili nelle manifestazioni di tutto il mondo, emerge in modo chiarissimo il legame tra justice e climate change, tra giustizia ambientale e giustizia sociale. Probabilmente molti di questi giovani non conoscono i movimenti sociali che li hanno preceduti; ma i semi lavorano sotto terra, non si vedono e possono generare grandi piante. “Per quanto grande sia il baobab ha sempre un piccolo seme come genitore” (proverbio del Madagascar). Di semi, in questi anni, ne sono stati seminati parecchi, alcuni innaffiati con il sangue, da Chico Mendes a Berta Càceres, solo per citare i più noti.
Ora questo movimento è corteggiato da tutto l’establishment, dai suoi megafoni e dalle autorità di tutto il mondo: come fosse un piccolo neonato ovviamente innocuo, da vezzeggiare a proprio piacere. Molti cortigiani di questi giovani sono proprio i responsabili dell’attuale situazione sociale e ambientale, oggi lusingano i ragazzi mentre cercano di nascondere i volti dei responsabili e di indirizzare il percorso verso obiettivi generici. Ma il tempo è di questi giovani; della loro capacità di autorganizzazione e di autodeterminazione.
Se resisteranno, se riusciranno a trasformare le loro proteste in un movimento in grado di chiamare per nome le banche, le multinazionali responsabili del land grabbing, del water grabbing, della costruzione delle grandi dighe che obbligano centinaia di migliaia di persone ad abbandonare la propria casa, delle perforazioni petrolifere e di un modello di sviluppo fondato sugli idrocarburi; se arriveranno a individuare le colpe dei politici che sacrificano il futuro del nostro pianeta per i profitti stratosferici di un esiguo numero di persone; se metteranno al centro della loro azione il legame inscindibile tra la lotta alla povertà e un’iniqua distribuzione della ricchezza e la lotta per la difesa del pianeta: se tutto questo avverrà l’establishment e i suoi alfieri cominceranno ad attaccarli, a delegittimarli in ogni modo e quindi scatterà una repressione senza guanti di velluto.
Non sarà più un gioco allora, non ci sarà un pupazzino da vezzeggiare, ma un movimento globale da fronteggiare che lotterà per cambiare l’attuale ordine mondiale. E la posta in gioco, come spiega il rapporto delle Nazioni Unite Global Environmental Outlook 2019, sarà la vita di miliardi di esseri umani e di migliaia di specie viventi. Il tempo a disposizione di tutti noi per cambiare il percorso della Storia è veramente limitato.
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