Per l’Australia l’immigrazione via mare è un problema interno, sociale, non di sicurezza nazionale (come invece viene descritto all’opinione pubblica).
Gli “scafisti” vanno fermati togliendo loro il mercato, facendo sapere al mondo intero che via mare, in Australia, non si arriva.

 

Come evidenziato da un recente rapporto Amnesty International e riportato da Pressenza, da Ottobre 2017 il governo australiano sta progressivamente smantellando i propri contestatissimi centri per rifugiati e richiedenti asilo sull’isola di Manus (Papua Nuova Guinea). Resta attivo quello a Nauru.
Il risultato è che circa 700 rifugiati “economici” provenienti per lo più da Iran, Pakistan e Afghanistan, ben lungi dall’essere ammessi in Australia e non riaccompagnabili nei propri Paesi per la mancanza di accordi bilaterali, sono bloccati in un limbo che somiglia più a una forma di punizione che di protezione.

Cerchiamo di capirne di più con questa intervista a Amadeus Leaflets che risiede in Australia da molti anni.

Leopoldo Salmaso: Com’è possibile che un Paese grande come l’Australia, ricco, abituato all’immigrazione da tutto il mondo e decisamente sotto-popolato, abbia tanta paura di 700 persone?
Amadeus Leaflets: Più invecchio, più mi rendo conto che l’Australia è un Paese strano. A volte ingenuo, a volte preciso fino alla durezza. Sarà che è un Paese giovane, sarà che le sue radici imperiali britanniche si stanno ancora adattando alla terra rossa e al carattere gioviale del suo melting pot dai mille ingredienti…
Sta di fatto che recentemente qualcuno è entrato in un negozio di mobili da ufficio di seconda mano, a Canberra, e ha comprato uno schedario blindato dismesso da qualche ufficio governativo. Dentro ci ha trovato decine di migliaia di documenti riservati o perfino “top secret” provenienti dall’Ufficio di Gabinetto del Primo Ministro. E li ha portati alla ABC. Nei Paesi freddi e seri per queste cose si muovono le spie. Qui da noi non siamo così formali.
Sono emersi diversi scandali, la stampa australiana non parla d’altro da una settimana e chiede conto ai politici senza fare sconti. Il giornalismo anglosassone è ancora una cosa seria, anche se gli anchormen qui tengono una tazza sulla scrivania.

L.S.: Sono emersi documenti scomodi anche sulla politica immigratoria?
A.L.: Infatti, ma niente scandali. Quei documenti sono passati quasi inosservati perché la maggior parte dei residenti ritiene superfluo o sconveniente scavare sul problema immigrazione.

L.S.: Che cosa è emerso?
A.L.: Nel tardo 2013 l’allora Ministro dell’Immigrazione e della Protezione dei Confini, Scott Morrison (Liberal), ha chiesto ai propri funzionari di ritardare le procedure per i controlli di sicurezza dei richiedenti asilo politico, in attesa di un visto di protezione permanente. Informato che la legislazione vigente imponeva all’Australia di accogliere circa 700 richiedenti asilo, il Ministro ha ordinato di prendere tempo in modo che le richieste sforassero la deadline prevista dalla legge e potessero essere respinte.
Il suo predecessore, Brendan O’Connor (Labour) seguiva a quanto pare una linea di condotta molto simile. Il suo successore e attuale Ministro, Peter Dutton (Liberal-National), non si è mostrato finora molto più tenero.
Intervistato dalla ABC, Morrison ha dichiarato: “Come ministro dell’Immigrazione e della Protezione dei Confini era mia precisa consuetudine mettere al primo posto gli interessi della sicurezza nazionale australiana”. E il Primo Ministro in carica Michael Turnbull ha rincarato la dose dichiarando che il Governo non si sarebbe scusato per aver mandato un chiarissimo messaggio ai “people smugglers”, i contrabbandieri di esseri umani: “Morrison ha fermato le barche, ha fatto un lavoro straordinario nel mantenere la sicurezza dei confini”.

L.S.: Come si inserisce l’Australia negli accordi internazionali per i migranti?
A.L.: Ufficialmente l’Australia è sempre o quasi “politically correct“, ma grazie ad un’altra fuga di notizie, questa volta sul fronte americano, è emerso su questo tema un precedente interessante che si verificò a Gennaio 2017, poco dopo l’insediamento di Trump. Il Washington Post aveva ottenuto la trascrizione di una telefonata tra il Presidente USA e il Primo Ministro australiano a proposito di un precedente accordo di ricollocamento in America di circa 1250 rifugiati bloccati a Manus Island.
Trump, fresco del primo bando verso gli immigrati da alcuni Paesi mediorientali, vuole tirarsi indietro. Turnbull gli chiede di non farlo e, per convincerlo, gli fa capire che l’accordo richiede solo che gli USA esaminino le richieste, non che le debbano accogliere. Cioè è lui stesso a spiegare alla sua controparte come aggirare l’accordo, col risultato di mantenere i richiedenti asilo a Manus.
La trascrizione integrale della telefonata è un trattato di realpolitik. E’ più conosciuta per aver svelato a suo tempo la tempra bellicosa del Trump privato, ma qui ci interessa perché rivela elementi interessanti sulle politiche australiane riguardo l’immigrazione.

L.S.: Cioè?
A.L.: Per l’Australia l’immigrazione via mare è un problema interno, sociale, non di sicurezza nazionale (come invece viene descritto all’opinione pubblica). Gli “scafisti” vanno fermati togliendo loro il mercato, facendo sapere al mondo intero che via mare, in Australia, non si arriva. Se anche sbarcasse un premio Nobel, l’Australia non lo ammetterebbe nei propri confini. E’ una questione di principio, da portare avanti senza eccezioni. Anche a costo di “punirne uno per educarne cento”.
Durante la telefonata, Turnbull ha il problema di far capire a Trump come mai l’Australia non vuole quelle persone nonostante non siano considerate pericolose. Deve convincerlo ad accettare quello che l’Australia non accetta. E ad un certo punto dice testualmente: “Lasci che mi spieghi. Noi sappiamo esattamente chi sono. Sono rimasti a Nauru o Manus per oltre tre anni e la sola ragione per cui non possiamo lasciarli entrare in Australia è per il nostro impegno a non consentire immigrazione via mare. Altrimenti li avremmo lasciati entrare. Se fossero arrivati in aereo e con un visto turistico, loro adesso sarebbero qui”.

L.S.: E come hanno reagito i cittadini australiani?
A.L.: Gli scandali, qui in Australia, sono meno scandalosi che nel Vecchio Continente o nei tumultuosi Stati Uniti. Queste vicende non svelano oscuri segreti inconfessabili ma si limitano a dimostrare qualcosa che tutti sanno e nessuno dice.
Il dibattito pubblico australiano sulla situazione di Manus Island e Nuaru si svolge in tipico stile British. L’argomento scomodo è conosciuto, di tanto in tanto emerge in modo più pressante, qualche testata fa un bel reportage, ma per lo più lo si lascia allo stato latente. Non se ne parla. Non sta bene. I movimenti civili di protesta hanno spazio sui media e nelle strade, ma non raggiungono mai la massa critica per cambiare le cose. E appena possibile si cambia argomento. Sembra che ci sia una sorta di tacito accordo sul fatto che, certo, è un’ingiustizia dal punto di vista umanitario, ma che in fondo sia un male necessario.
E’ abbastanza chiaro che le poche centinaia di rifugiati nei campi oltre-mare devono restare lì con le loro sofferenze, devono dimostrare agli Australiani che il continente è inespugnabile e fare da monito per tutti gli altri che volessero imbarcarsi per arrivare.

L.S.: Alla faccia di noi che ci accapigliamo sulla “fortezza Europa”…
A.L.: Quando nella Manica c’era nebbia fitta, il Times titolava che il Continente era isolato. L’Australia contemporanea non sembra molto diversa: si gode il proprio splendido isolamento, si crogiola nelle statistiche che la pongono in vetta al mondo per qualità della vita e continua ad applicare una rigidissima selezione all’ingresso. Come nei più esclusivi club della City.