ROMA – Mentre oggi andava in scena la cerimonia di chiusura del summit internazionale su Acqua e Clima alla Protomoteca del Campidoglio, associazioni e movimenti hanno chiesto con un flash mob alle istituzioni locali e nazionali misure concrete per la gestione comune e sostenibile delle risorse idriche, il rispetto della giustizia climatica e del diritto universale all’acqua.

“Fiumi e laghi prosciugati dai profitti dei privati – Fuori l’acqua dal mercato” recitava lo striscione srotolato.

Gli attivisti hanno inoltre colto l’occasione per lanciare la campagna #RiallacciaIlNasone (http://bit.ly/RiallacciaIlNasone), con la richiesta alla Sindaca Virginia Raggi di riaprire le fontanelle pubbliche chiuse dall’Acea durante l’estate.

La speranza è che dal summit sia il Ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, sia la Sindaca di Roma, Virginia Raggi, abbiano imparato qualcosa per invertire la rotta di politiche insostenibili. Grazie a un suggerimento del primo e al silenzio assordante della seconda, è passato a luglio il piano dell’Acea per la chiusura di quasi tutti i 2.800 nasoni di Roma, sull’onda di una emergenza siccità smentita dai rapporti dell’Ispra, mentre oltre il 40% dell’acqua di Roma si perde a causa dei mancati investimenti. Non c’è stato il rispetto del principio di giustizia climatica, che di fronte alle crisi ambientali imporrebbe la tutela dei soggetti più fragili. Chiudendo le fontanelle romane si è deciso di negare l’accesso all’acqua a circa 10 mila persone tra senza fissa dimora, rom, migranti e indigenti, che non hanno altro modo di lavarsi o dissetarsi. E dire che l’accesso all’acqua è un principio chiave della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dal 2010, mentre nel 2015 una storica risoluzione del Parlamento europeo ha proposto di inserirlo nella legislazione dell’Ue, di escludere l’acqua dai negoziati per accordi commerciali come il CETA e il TTIP, di bloccare le privatizzazioni.

Il Governo italiano finora ha clamorosamente mancato questi importanti obiettivi, aggirando il referendum del 2011 tramite la legge Madia e sostenendo la firma del CETA, l’accordo di libero scambio Ue-Canada che apre a ulteriori privatizzazioni dei servizi pubblici.

Il Comune di Roma ha fatto altrettanto con il silenzio assenso sul piano di chiusura delle fontanelle pubbliche, pur essendo primo azionista di Acea. Il giudizio sulla gestione privata dell’acqua nella capitale è fortemente negativo, come sottolineano i dati: la rete idrica è afflitta da una tale carenza di manutenzione da registrare perdite del 40% e mentre nel 2016 gli oltre 60 milioni di euro di utili dell’azienda sono finiti in tasca agli azionisti, per rispondere a una presunta siccità si è preferito chiudere i “nasoni”, da cui passa appena l’1% dell’acquache ogni secondo arriva a Roma.

Nemmeno a livello regionale per ora sono stati fatti passi avanti: eppure la Regione Lazio nel 2014 fu pioniera nell’approvare la prima legge che pone le basi per rendere nuovamente pubblico il servizio idrico. A pochi mesi dalle nuove elezioni, tuttavia, manca ancora l’ultima delibera dell’Assessore Fabio Refrigeri, che permetterebbe di attuare questo storico provvedimento. Allo stesso modo non si sono trovati i 2.500 euro annui sufficienti alla manutenzione degli idrometri del lago di Bracciano, ancora in crisi dopo gli allarmi di questa estate. Un’emergenza che, grazie a tre relazioni tecniche dell’Ispra pubblicate la settimana scorsa, sappiamo essere frutto non tanto della siccità, quanto delle captazioni sconsiderate per l’uso umano, soprattutto da parte di Acea.

Unendo i puntini siamo in grado di costruire una mappa delle responsabilità e delle carenze istituzionali che hanno generato uno stato di emergenza del tutto evitabile a Roma e nel Lazio. I prelievi idrici non controllati da enti indipendenti hanno causato il disastro ambientale di Bracciano, ma quegli stessi prelievi sembrano indispensabili a causa di enormi perdite nella rete idrica romana, su cui l’Acea non interviene da anni perché preferisce distribuire dividendi da capogiro agli azionisti. Il tutto a scapito delle comunità locali e dei cittadini romani, vittime della beffa di una misura ingiusta e vana come la chiusura dei nasoni.

Pensiamo che le passerelle ai summit internazionali non bastino a costruire il futuro dei territori. Per questo chiediamo a tutti i rappresentanti istituzionali – dalla Sindaca di Roma al Presidente della Regione Lazio, fino al Ministro dell’Ambiente – di assumersi le proprie responsabilità politiche: l’approccio attuale, ad ogni livello, è contrario ad una gestione partecipata, trasparente e sostenibile dell’acqua. E questo non è soltanto inaccettabile, ma rappresenta un pericolo concreto per chi vive e lavora sul territorio, sempre più esposto agli effetti dei cambiamenti climatici. Chiediamo una serie di misure urgenti alla Sindaca Raggi: faccia pressioni su Acea per la riapertura dei nasoni e imponga la riparazione della rete colabrodo impiegando gli utili aziendali, pubblichi i dati sulle risorse impiegate finora nelle riparazioni delle tubature e la lista degli interventi già conclusi. Al Presidente Zingaretti chiediamo di attuare la legge 5 del 2014, per realizzare il volere di milioni di cittadini e tutelare i bacini idrografici. Al Ministro Galletti va invece la richiesta di portare alla COP 23 una parola chiara sulla gestione dell’acqua: qualunque risposta ai cambiamenti climatici che tuteli la risorsa idrica deve rigettare le regole di mercato. Non può esistere attenzione ad un bene comune e scarso se l’obiettivo del gestore è fare profitti. Tutto il resto rischia di essere solo una favola vuota, probabilmente non a lieto fine.

Coordinamento romano acqua pubblica