Serpica Naro, una stilista provocatrice virtuale si è infiltrata nel calendario ufficiale della Settimana della Moda milanese del 2005 per denunciare le condizioni dei lavoratori precari nell’industria della moda italiana. Da questa beffa mediatica è nato un collettivo che organizza eventi, laboratori e iniziative in particolare intorno ai concetti di proprietà intellettuale, soggettività nelle industrie creative, lavoro e precarietà nella moda.

Serpica Naro, non un brand ma un metabrand. Cosa significa? Condivisione, libera circolazione di idee e immaginari. Ma è anche una scelta consapevole, quella di non fare uso di pratiche di sfruttamento lavorativo lungo la catena di produzione e distribuzione. Da un lato c’è il marchio tradizionale, ha una struttura piramidale e tende a “vampirizzare” tutto ciò che gli ruota intorno, capitalizza i guadagni nelle mani di pochissimi e tiene la maggior parte dei lavoratori in condizioni di instabilità sia economica sia contrattuale. Dall’altro c’è il metabrand, che ha invece andatura circolare, punta alla condivisione dei saperi e all’organizzazione etica della risorse umane.

Quello del lavoro è uno dei temi fondanti di Serpica Naro, anagramma – in realtà – di San Precario, protettore del popolo dei lavoratori precari. Ricercatori, creativi o operai. Chiunque soffre di reddito intermittente o sottosalario e vive schiacciato da un futuro incerto può fare appello allo stesso santo protettore.

San Precario si diffonde come una vera e propria icona pop nel 2004, ma per presentare il suo anagramma al grande pubblico, il collettivo che lo ha ideato ha scelto un’occasione particolare: la settimana della moda di Milano dell’anno successivo, il 2005. Quale occasione migliore, infatti, se non un grande evento nel quale lavora un grande dispiego di risorse umane in condizioni di precarietà assoluta?

Nasce così Serpica Naro, una stilista giapponese fittizia, con tanto di book della propria collezione, press agencies in diverse parti del mondo e registrazione del marchio (poi liberato). Un’idea realizzata grazie al lavoro di circa 200 persone tra precari del mondo della moda, dello spettacolo e della comunicazione. La “stilista” riesce a infiltrarsi nella calendarizzazione dell’evento e sfila sulle passerelle di Milano riscuotendo un notevole successo, tanto che non rimane soltanto un’azione isolata ma rappresenta ancora oggi un marchio di sartoria indipendente fondato sul concetto di scambio e condivisione.

Chiara fa parte del collettivo che continua ad animare il progetto, racconta le origini dell’idea e i principi che stanno alla base della sua evoluzione. “Cerchiamo di conciliare il recupero degli antichi saperi con l’utilizzo e l’implementazione delle nuove tecnologie, sempre in una dimensione open source”, spiega.


Parla di Serpica Naro come di un coacervo di idee in continua fermentazione. Corsi di cucito, workshop e tanto altro. Oggi i due fiori all’occhiello sono il “Parla come cuci” e “Noor – nato con la camicia”. Il primo, “non un corso ma un percorso” – precisa Chiara – realizzato insieme a una scuola di italiano per migranti, è un momento in cui parlare mentre si cuce per fare pratica conversando in italiano o per imparare a chiamare le cose in lingue diverse. Il secondo è un progetto sartoriale che coinvolge un giovane rifugiato afgano, Noor, sarto che cuce camicie su misura o realizza copie dei vestiti che ami.

Oggi SerpicaLab – laboratorio del collettivo Serpica Naro – vive nel quartiere popolare di Stadera a Milano ma conta su partnership e libere collaborazioni in tutta Italia e nel mondo. È uno spazio che permette di sperimentare ma anche di riflettere su altre possibili forme di organizzazione del lavoro, su base collaborativa e orizzontale, lontane della logica dello sfruttamento e fondate sui principi del riciclo dei materiali e sull’autoproduzione. È un rivoluzione copernicana, quella di un brand che non vuole dettare moda ma invita a creare e seguire il proprio stile.

Intervista e realizzazione video: Paolo Cignini

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