Prima lasciano che le spolpino, poi, quando sono prossime alla bancarotta, le rimettono in piedi con i soldi di tutti. Dicono di farlo per l’interesse generale. In realtà lo fanno per arricchire pochi a danno di tutti. Un furto di massa perpetrato dai professionisti della politica a beneficio dei banditi dell’economia attraverso le banche.

Dopo anni di mala gestione, resa possibile da una deregolamentazione suicida, anche in Italia un numero crescente di banche ha chiesto aiuti di stato per non affondare. Siamo partiti nel 2009 con il Credito Valtellinese e il Banco Popolare e abbiamo proseguito con banche minori come Banca Etruria e Banca Marche, per arrivare al colosso Monte dei Paschi e recentemente alla Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Ogni volta con forme di aiuto diverse a seconda di ciò che conviene alla banca da soccorrere e al modo migliore per aggirare le norme europee. Ora con prestiti trasformabili in azioni, ora con somme versate sotto forma di nuovo capitale sociale, ora dando soldi a una banca più grossa affinché assorba la banca in difficoltà e continui a farla funzionare ripulita dalle situazioni più critiche. Ed è proprio quest’ultima modalità che hanno deciso di adottare per Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che saranno rilevate da Banca Intesa in cambio di un intervento statale che può arrivare fino a 17 miliardi di euro.

Che le due banche navigassero in cattive acque era noto da tempo, ma il problema è stato ufficializzato solo nel 2013. Ambedue del profondo Nordest erano gestite da due personaggi così uguali per storia e comportamenti che sembravano fatti con lo stampino. Entrambi saliti al comando a fine anni Novanta, entrambi usciti di scena nel 2015. Vincenzo Consoli dominus incontrastato di Veneto Banca per 18 anni, Giovanni Zonin re della Popolare di Vicenza per 19 anni. Quattro lustri in cui hanno spadroneggiato e usato i soldi dei risparmiatori per affari non sempre brillanti, ma di sicuro utili a rafforzare il loro potere. Il credito facile di Veneto Banca è andato a beneficio di nomi celebri come Alitalia, il gruppo Boscolo,  la Lotto sport, nonostante avessero situazioni finanziarie traballanti. Tra i politici, hanno avuto fidi l’ex governatore del Veneto e ministro Giancarlo Galan e nel 2012 (ben 7,6 milioni di euro) Denis Verdini, coi quali l’allora deputato di Forza Italia aveva potuto coprire temporaneamente i debiti delle sue società editoriali e immobiliari. Qualche beneficio è poi ricaduto in famiglia: nel 2005 la moglie di Consoli ha acquistato una villa in Sardegna a Baia Chia da una società di Gino Zoccai, l’imprenditore orafo di Thiene, protagonista del crack della compagnia aerea Volare, che aveva avviato una iniziativa immobiliare, finita poi male, finanziata per 8,5 milioni proprio da Veneto Banca. Il velo sull’operato di Consoli lo alza Banca d’Italia, ma solo nel 2013, nonostante avesse eseguito numerose ispezioni già in precedenza. Alla fine viene a galla che l’ammontare di crediti che la banca rischia di non rivedere sono un miliardo in più di quelli dichiarati in bilancio. Per di più viene fuori che la banca aveva dato un sacco di prestiti a clienti fidati affinché li utilizzassero per comprare azioni della banca stessa in modo da farla apparire in salute. Consoli viene multato, ma non basta a disarcionarlo e da amministratore delegato diventa incredibilmente direttore generale. Poi nel gennaio 2015 arriva l’ispezione Consob e a febbraio la procura di Roma, che perquisisce la banca e pone fine all’era Consoli, arrestandolo nell’agosto 2016 per ostacolo alle autorità di vigilanza e aggiotaggio.

Zonin, invece, che non è nato a Matera come Consoli, ma è di Gambellara, in provincia di Vicenza, non è finito in carcere e non ha subito sequestri, nonostante sia accusato degli stessi reati. Un atto di citazione presentato al Tribunale  il 6 aprile 2017 da parte della dirigenza della sua stessa banca documenta nero su bianco la mala gestione dell’era Zonin. Si comincia con soldi trasferiti in Lussemburgo, circa 350 milioni di euro, su fondi posseduti da clienti già pesantemente esposti con la banca e ad affidabilità zero come Alfio Marchini e le famiglie Fusillo e Degennaro. I fondi sono stati progressivamente svalutati con una perdita per la Popolare di Vicenza di 199 milioni. Un credito opaco all’estero associato a un credito allegro verso l’interno, spesso per avere come contropartita l’acquisto di azioni della banca stessa, secondo lo stesso giochetto attuato da Veneto Banca. Fin dal 2008 clienti storici come i fratelli Ravazzolo, Piergiorgio Cattelan, Ambrogio Dalla Rovere, Francesco Rigon ottenevano credito e remunerazioni garantite  dalla Popolare di Vicenza in cambio di acquisti di azioni della banca. Una strategia che si espande anche fuori dal Veneto, quando Zonin apre una filiale in Piazza Venezia a Roma: i nuovi clienti sono il gruppo Degennaro, Bufacchi, Torzilli e il gruppo Marchini, riconducibile ad Alfio Marchini, candidato sindaco a Roma, le cui società hanno ricevuto 130 milioni, di cui 75 iscritti come “incagli” e difficili da recuperare. Zonin non si risparmia nulla ed elargisce a piene mani a società riconducibili a lui o alla sua famiglia, che complessivamente ricevono tra il 2013 e il 2015 finanziamenti per 181,4 milioni. E ai consiglieri della Vicenza? A Nicola Tognana prestiti per 81,3 milioni, 45,8 a Giovanni Fantoni, 33,1 a Giuseppe Zigliotto, 30 a Giovanna Dossena e così via.

Ben presto si sparge la voce che il 40% dei prestiti concessi dalle due banche hanno alte probabilità di non rientrare e comincia un processo di allontanamento dei risparmiatori dalle due banche, che non fa altro che peggiorare la situazione. Nel tentativo di raddrizzare la barca il governo spinge affinché si crei un fondo privato disposto a iniettare capitali nelle due banche e nasce Atlante, un fondo a cui partecipa anche Cassa Depositi e Prestiti di proprietà del Ministero dell’Economia. Atlante mette nelle due banche tre miliardi e mezzo, che risultano totalmente insufficienti a coprire il buco che si è creato in virtù della diminuzione dei depositi e del mancato rientro di molti crediti. Ed è nel giugno 2017 che il governo decide di mettere le due banche in liquidazione coatta, cercando nel contempo una banca disposta a rilevare la parte sana dei due istituti. Si fa avanti Banca Intesa, che al prezzo simbolico di un euro si dichiara disponibile all’operazione,  ma precisa di non volerci rimettere nemmeno un centesimo. Anzi da brava banca vuole guadagnarci. Analizzata la situazione giunge alla conclusione che le due banche vantano crediti affidabili per 37 miliardi e crediti quasi affidabili per altri 4. Sufficienti a coprire i depositi ed altre forme di prestito ricevuti dai risparmiatori, che ammontano a 37,5 miliardi. Ciò nonostante calcola uno scoperto di 3,5 miliardi di euro e chiede allo stato di coprirlo. Inoltre calcola un altro miliardo di spese che deve sostenere per chiudere 600 sportelli e disfarsi di 4.000 dipendenti. La conclusione è che il 25 giugno lo Stato vara un decreto in cui riconosce a Banca Intesa un contributo pari a 4,7 miliardi. Inoltre le assicura altre forme di garanzie su rischi ipotetici per 12,3 miliardi di euro. Così siamo a un impegno complessivo di  17 miliardi di euro, a cui va aggiunto un altro miliardo per spese di liquidazione da riconoscere al curatore fallimentare. In conclusione allo Stato è assicurato un nuovo debito immediato per 5 miliardi e mezzo di euro.

E i crediti ad alto rischio di non rientro, pari a 10 miliardi di euro, che fine fanno? Li prende in gestione SGA, acronimo di Società per la Gestione delle Attività, una società del Ministero dell’Economia che cercherà di recuperare il recuperabile in modo da restituire i soldi agli azionisti. Non dimentichiamo ad esempio l’esborso di Cassa Depositi e Prestiti, che partecipando ad Atlante ha perso mezzo miliardo di euro. Si poteva fare diversamente? L’alternativa era la nazionalizzazione: sarebbe costata meno e avremmo cominciato a camminare sulla buona strada. Quella che affida l’attività bancaria alla collettività dichiarando il credito un servizio di utilità sociale su cui non si può lucrare e tanto meno esporre i cittadini a rischio.

A quanti altri fallimenti bancari dovremo assistere prima di mettere definitivamente al bando il vizietto di privatizzare i profitti e socializzare le perdite?