Contrariamente a quello che pare essere il pensiero più diffuso quando si parla di “migranti”, le strade delle migrazioni non sono “a senso unico”. Oltre al dato degli italiani emigrati all’estero (secondo un rapporto della Fondazione Migrantes, nel 2015 sono stati più di 107mila i giovani italiani sotto i 35 anni ad emigrare dal “Belpaese”) sta diventando significativo, anche se non ancora quantificato, il fenomeno delle “migrazioni di ritorno”, vale a dire le persone che, dopo un periodo di migrazione, di lavoro e di vita in Italia, scelgono di tornare al proprio Paese di origine.

Ad essere rientrati sono già in tanti. E tantissimi altri vorrebbero farlo ma le difficoltà non mancano e sono soprattutto legate alla legislazione che regolamenta i flussi migratori in Italia.

A questo proposito possiamo approfondire il caso del Senegal, su cui recentemente è stato realizzato il web-documentario “Demal te niew” espressione in lingua wolof, la più utilizzata in Senegal, che significa “Va’ e torna”. Il webdoc, realizzato da un team multidisciplinare grazie al contributo dello European Journalism Centre, racconta le storie di tre migranti rientrati in Senegal dopo un periodo vissuto in Italia e contiene articoli e visualizzazioni che illustrano i temi di fondo dietro al fenomeno delle migrazioni, come quelli dei diritti negati, della contaminazione culturale, del lavoro, ecc.

Silvia Lami, tra gli ideatori del webdoc, attualmente vive a Thiès, in Senegal, dove lavora sul tema delle migrazioni di ritorno dall’Italia. Racconta: «Oggi vediamo molte persone che arrivano in Italia già con la volontà di ritornare nel proprio paese di origine. Alcuni tornano lanciando un progetto d’impresa. In questo senso, i migranti di ritorno sono vettori di cosviluppo perché alcuni aprono delle imprese in partenariato con soci italiani, e diventano quindi vettore di sviluppo sia del paese di origine che di quello di destinazione. È necessario mostrare un’idea più complessa della migrazione, le mobilità transnazionali sono in entrambi i sensi e se le persone sono libere di muoversi, riescono anche più facilmente a tornare al paese di origine».

Infatti, chi ottiene il permesso di soggiorno in Italia può più facilmente tornare in Senegal. Lo testimoniano le storie raccolte nel web-doc. Ndary, ad esempio, è un giovane senegalese di 37 anni. In Italia, lavorava come addetto alla segnaletica stradale a Pescara, ed oggi, rientrato in Senegal, è socio di una gelateria che ha aperto con un amico italiano a Saly, località turistica sull’Oceanio Altantico. Riflettendo sull’importanza di essere in regola con i documenti, Ndary riesce a ribaltare il punto di vista europeo sulla questione. «I documenti ti permettono di muoverti liberamente: puoi uscire dall’Italia perché sai che puoi entrarci quando vuoi, anche per acquistare la merce per le tue attività».

L’Italia ricopre il terzo posto tra i paesi ospitanti migranti senegalesi, dopo Gambia e Francia (dati Banca Mondiale). Secondo l’ISTAT, al 1° gennaio 2015 erano 94.030 i senegalesi registrati sul territorio italiano. Di questi, la maggior parte ha un permesso di soggiorno di lungo periodo e si tratta dei senegalesi residenti in Italia da tempo, ma sui nuovi 8.755 permessi di soggiorno rilasciati nel 2014, meno di 1 su 4 è di durata superiore a 12 mesi. Questo implica l’esser tagliati fuori dal diritto di spostarsi per un tempo prolungato dall’Italia, e così non si favoriscono i flussi di rientro. «Per scegliere di rientrare nel proprio paese, il migrante ha bisogno di valutare il rischio d’impresa effettuando più spostamenti nel corso dell’anno – sottolinea Lamine Sow Coordinatore Dipartimento Immigrazione presso Cgil Piemonte – In tal senso, andrebbero valorizzate le migrazioni circolari, che sono praticamente impossibili con un permesso di soggiorno temporaneo che di fatto limita gli spostamenti».

Altro punto critico è la mancanza di un accordo normativo sulla sicurezza sociale tra Italia e Senegal. Un vuoto legislativo che, tra i vari diritti, intacca anche l’aspetto dei contributi pensionistici. Un problema che riguarda molti cittadini extracomunitari se si considera che il governo italiano ha stipulato accordi bilaterali in materia con 22 Paesi, mentre nel periodo 2015-2016 l’ISTAT rileva la presenza sul territorio italiano di cittadini provenienti da 162 Paesi extracomunitari. Lamine Saw disegna il quadro della situazione: «Prima della legge 189/2002 meglio conosciuta come “Bossi-Fini”, era prevista la possibilità per chi rientrava nel proprio paese di origine di riscuotere parte dei contributi versati. Oggi non c’è più questa modalità di sostegno al rientro; per chi è rientrato è possibile, una volta compiuti 66 anni, richiedere la pensione all’ambasciata italiana ma bisogna considerare che l’aspettativa di vita in Senegal è molto più bassa di quella italiana e che molti una volta rientrati non richiedono la riscossione della pensione». Ne consegue, come rilevato dal rapporto Worldwide Inps del 2015, che nelle casse dell’INPS l’ammontare dei contributi pensionistici non riscossi equivale ad un “tesoretto” di 3.000.000.000 di euro: è questo il valore dei contributi versati in Italia da quegli immigrati poi rientrati al paese d’origine senza farsi liquidare la pensione. I contributi “appartengono” a quasi 200.000 stranieri con oltre 66 anni e 3 mesi con contribuzione Inps, e quindi titolati ad incassare la pensione, che però non hanno ricevuto alcuna prestazione

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