Nonostante le impressionanti realizzazioni del decennale governo Correa e il triste ricordo dei danni provocati dalle ricette neoliberiste, la graduale disaffezione delle organizzazioni di base potrebbe costare cara al partito di governo.

di Federico Larsen – Noticias de América Latina y el Caribe
17.02.2017 – Buenos Aires, Argentina 

 

“Non picchiarlo con un bastone, non con una pietra, picchialo con Correa[1] se vuoi fargli male” cantava un gruppo di donne davanti al palazzo presidenziale a poco meno di una settimana dalle elezioni generali equatoriane. Vestite con giacche di pelle, stucchevolmente truccate e colorate, agitavano davanti ai loro occhiali scuri un ritratto del presidente uscente durante l’attesa per la tradizionale cerimonia del cambio della guardia presidenziale che ha luogo ogni Lunedì nel centro storico di Quito. Di fronte a loro un’altra donna, con abbigliamento e veemenza simili, denunciava con un megafono il “furto” della sua fattoria per mano della classe politica dirigente, tra i fischi provenienti da decine di militanti filo-governativi che la circondavano con le loro bandiere verdi.
Questa scena è una delle poche situazioni di tensione che il viaggiatore potrebbe vedere nelle strade dell’Ecuador in prossimità delle elezioni del 19 febbraio. In effetti questa è una delle caratteristiche del clima pre-elettorale nel paese: le feroci discussioni e accuse incrociate che prevalgono nei media non si riflettono nei bar e nelle piazze. Pochi sono disposti a parlare delle elezioni, e quelli che lo fanno si limitano a confessare totale ignoranza o indecisione su quale candidato votare. Anche il dibattito presidenziale, tenutosi Domenica 5 negli studi del quotidiano di opposizione El Comercio con gli otto candidati, e trasmesso da più di 200 media nel paese e all’estero, ha avuto scarso indice di ascolto e ripercussioni anche minori. Nelle case e nei bar la gente ha preferito guardare il Super Bowl o uno qualsiasi dei molti canali di telenovela che offre la televisione equatoriana.

I sondaggi riflettono questo stesso scenario. Tutti, senza eccezione, danno per vincente il tandem governativo composto da due ex vicepresidenti di Correa, Lenin Moreno e Jorge Glas, seguito dall’ex banchiere Guillermo Lasso e dalla democristiana Cynthia Viteri. Ma tutti concordano che, anche una settimana prima delle elezioni, il numero degli indecisi è molto elevato, tra il 20 e il 30% a seconda della fonte. Ancora più combattuta sarà l’elezione dei 137 membri dell’Assemblea Nazionale, dal cui controllo dipende la continuità di buona parte delle politiche promosse dal governo attuale, in un paese dove i leader locali hanno più influenza di quelli nazionali. Questo scenario favorisce chiaramente l’opposizione perché, se non ottiene il 40% dei voti con 10% di vantaggio sul secondo, Lenin Moreno dovrebbe affrontare il ballottaggio dove potrebbe pesare a favore dell’opposizione la capacità aggregante dello slogan generico “cambiamento”. Per questo la seconda canzoncina del repertorio delle donne davanti al palazzo di Carondelet era “in un solo turno, Lenin presidente”.

 Vecchi slogan in nuovi scenari
Il fatto che i locali non trabocchino di frenetiche discussioni politiche non significa che la campagna elettorale sia silenziosa o nascosta. Al contrario, per le strade dell’Ecuador sono più che visibili i segni di appoggio che la popolazione esprime verso questo o quel candidato. I commercianti esibiscono senza paura fotografie del candidato che voteranno e pacchi di volantini accanto al registratore di cassa. Auto, camion e persino autobus a lunga distanza mostrano gli slogan elettorali di questo o quel partito nella finestra posteriore. Le 4×4 cariche di altoparlanti diffondono slogan di partito anche nei più remoti villaggi di montagna. Gli oppositori martellano sulle litanie già conosciute in altre parti dell’America Latina, imperniate sulla denuncia della corruzione, delle tensioni sociali a causa della politica e della insicurezza, sottolineando sempre la parola cambiamento. Gli attori filo-governativi, consapevoli del fatto che i casi di corruzione scoperti negli ultimi mesi indeboliscono la campagna di Lenin, insistono sulla trasparenza della continuità.
La carta della corruzione è, nei fatti, quella che sta dando più vantaggi all’ampio arco dell’opposizione. A partire dal caso Oderbrecht, con 35,5 milioni di dollari distribuiti tra funzionari equadoriani dal 2006, passando per sospetti su tangenti in Petroecuador -avanzati dall’estero da un ex ministro di Correa- fino all’impiego e al deficit dei fondi di previdenza sociale, la stampa e l’opposizione hanno sistematicamente insistito nell’avanzare dubbi sulla legittimità delle azioni di governo. Ma più che al mulino delle destre, questa campagna diffamatoria sembra portare acqua al già enorme esercito degli indecisi. “Ho deciso che non voterò ancora per Correa. Sono troppo corrotti”, dice Marianela, giovane proprietaria di un ostello sulla costa. Ma dall’altra parte c’è il banchiere, che non so se sia lo stesso”.

Guillermo Lasso è il candidato con le migliori possibilità di battere Lenin Moreno in un eventuale secondo turno. Discendente di una antica e potente famiglia in Ecuador, è l’amministratore delegato del Banco Guayaquil ed era super ministro dell’economia e dell’energia nel governo di Jamil Mahuad -che lo aveva nominato governatore della provincia di Guayas uno anno prima- tra agosto e settembre 1999, inventando quella carica per affrontare la crisi finanziaria estremamente grave che il paese attraversava. Quella situazione portò alla famosa “chiusura bancaria” del 99, in cui le attività finanziarie furono sospese per cinque giorni, fu dichiarato il fallimento di diverse banche e tutti i costi dei salvataggi furono trasferiti allo Stato che dovette tagliare la spesa sociale e congelare i depositi della popolazione. Una crisi sociale di dimensioni enormi che, alla fine, sfociò nella dollarizzazione del sistema monetario equatoriano- causata in gran parte dalle politiche di liberalizzazione e di flessibilità che Lasso ripropone nella sua campagna.

L’Ecuador di Correa e Lenin
Però, se si parla di strade, il partito di governo ha una carta imbattibile: le migliaia di chilometri di strade e autostrade moderne realizzate dal governo Correa in tutto il paese sono diventate un simbolo del cambiamento che Alianza PAIS ha promosso negli ultimi dieci anni di governo. Tra il 2006 e il 2016 l’Ecuador è cresciuto a un tasso annuo del 3,8% con un picco di oltre il 7% nel 2007. Con una miscela di riforme del modello produttivo, incentivi al consumo, miglior distribuzione della ricchezza e, soprattutto, grazie ai prezzi elevati del petrolio esportato, il governo equatoriano è riuscito a cambiare in modo significativo le condizioni di vita della popolazione e a migliorare i servizi pubblici. I capolinea degli autobus di grandi città, puliti, nuovi e funzionali, sono un emblema architettonico della modernizzazione implementata negli ultimi dieci anni, così come i nuovi ospedali e i presidi di cure primarie. I dati macroeconomici confermano che negli ultimi anni i maggiori investimenti sono andati su Istruzione e Servizi Socio-Sanitari, Raffinazione autonoma del petrolio e Fornitura di energia elettrica e acqua. Tutto ciò, assieme alla infrastruttura stradale, fornisce un quadro abbastanza completo di ciò che ha realizzato la Rivoluzione Civica negli ultimi dieci anni. E queste politiche pubbliche hanno avuto chiaramente la loro controparte politica. Dopo il ritorno alla democrazia nel 1979, Correa è il primo presidente che ha ottenuto la rielezione e che è già diventato il più longevo nella storia dell’Ecuador. Dal 1996 nessun presidente equatoriano era riuscito a terminare il suo mandato, mentre Correa sta per concludere il secondo. Questa stabilità, impensabile nella vita politica del paese, è certamente un punto a favore della “continuità con cambiamento” rappresentata dall’attuale candidato governativo.

Lenin Moreno è forse uno dei migliori rappresentanti del processo politico che Alianza PAIS ha vissuto negli ultimi anni. Piccolo imprenditore legato al settore del turismo, ha perso l’uso delle gambe dopo un assalto nel 1998 e ha iniziato una lunga carriera come motivatore e attivista dei diritti delle persone disabili. E’ stato vice presidente di Correa dal 2007 al 2013, quando accettò l’incarico di Inviato Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla Disabilità e Accessibilità che gli fu proposto dall’allora segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon. Andò a Ginevra lasciando un indice di gradimento di oltre l’80% nel suo paese, ecco perché il suo partito lo ha candidato alla presidenza. In seno ad Alianza PAIS, Lenin rappresenta un settore che sostiene la necessità di moderare i termini della controversia con l’opposizione e consentire un maggiore dialogo con i diversi settori sociali senza cambiare strutturalmente il modello economico che si è mantenuto fino ad oggi. Una proposta che riscuote, per affinità o per necessità, l’adesione della stragrande maggioranza del partito, e che apre anche il dibattito sulla figura di Correa come leader politico nel futuro prossimo del suo paese. Certo è che, se eletto, Lenin dovrà fare appello a nuove ricette economiche e sociali, senza perdere il timbro progressista, se si vuole uscire dalla recessione in cui il paese è entrato dal 2016. Il calo dei prezzi del petrolio e dei prodotti agricoli -l’Ecuador è uno dei più grandi esportatori mondiali di gamberi, banane e fiori- e la stagnazione degli investimenti e della produzione, causata anche dall’attesa dei risultati elettorali, hanno bruscamente rallentato la crescita dell’Ecuador. A questo si aggiunge l’opposizione esplicita di buona parte dei movimenti sociali e popolari che avevano portato al potere il Correismo e che si sono visti spiazzati o addirittura combattuti dalle istituzioni statali e dalle decisioni economiche del governo.

Un conflitto evidente
Il viaggio per le strade dell’Ecuador in tempo pre-elettorale offre tutti i tipi di istantanee, oltre allo splendido scenario della giungla orientale, degli altipiani centrali o della costa occidentale, le tre grandi regioni del paese. Manifesti di tutti i tipi e dimensioni, dipinti sulle pareti a fianco delle strade -certo molto puliti e chiari- sono visibili praticamente in tutto il paese, ma ciò che richiama di più l’attenzione sono le bandiere. Sui balconi, sui davanzali, sui tetti delle case si possono veder sventolare piccole bandiere che rappresentano questo o quel partito: verde per Lenin, bianco per Lazo. A volte i colori delle bandiere sembrano anche suggerire il settore sociale prevalente nel luogo che si sta attraversando. C’è una bandiera, in particolare, che da quella sensazione: la bandiera coi colori dell’arcobaleno. Per le strade del nord di Ambato, negli altopiani centrali, dove l’uniforme della scuola è un poncho nero su camicia bianca e le donne portano i figli sulla schiena, avvolti in coperte colorate, prevalgono le bandiere coi colori arcobaleno. Lo stesso vale in Otavalo, due ore a nord di Quito, nelle cui piazze si sente parlare quasi solo quechua e la gente per le strade ogni giorno mostra i bellissimi costumi tradizionali che l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Sono le bandiere del Movimento di Unità Plurinazionale Pachakutik, che insieme con la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) e con la Confederazione dei Popoli di Nazionalità Quechwa dell’Ecuador (ECUARUNARI) rappresentano le organizzazioni più forti dei popoli indigeni. Pachakutik ha raggiunto una certa crescita elettorale negli ultimi anni, soprattutto dopo aver preso una posizione di chiara opposizione a Correa per lo sfruttamento del petrolio della riserva Yasuni. L’organizzazione indigena ha una presenza territoriale chiara e massiccia a est e nel centro del paese, ed è il principale oppositore del modello estrattivo promosso dal governo centrale. Assieme ad altri movimenti popolari, ha messo in scena scioperi generali nel 2015 e 2016, la lunga marcia per la dignità indigena, e anche scontri con le forze di sicurezza in proteste per la fame della loro gente e per l’accerchiamento dei loro territori. Attualmente sviluppano manifestazioni di protesta contro le concessioni minerarie ad aziende cinesi che potrebbero provocare la dislocazione di alcune comunità Shuar nella parte orientale del paese. Mentre storicamente hanno tenuto posizioni legate alla sinistra anticapitalistica, lo spostamento del Correismo verso il centro del panorama politico equatoriano ha portato alla formazione di alleanze con settori dell’opposizione che non appartengono a priori alla loro area naturale di collocazione politica.
Così, in queste elezioni i voti delle bandiere arcobaleno andranno al Patto Nazionale per il Cambiamento, costituito da Unità Popolare e Sinistra Democratica, oltre alla Pachakutik, che ha come candidato presidenziale l’ex capo del Comando Congiunto delle Forze Armate ed ex sindaco di Quito, Paco Moncayo.
La progressiva disaffezione delle organizzazioni di base che avevano portato Correa al potere è evidente, ed è uno degli argomenti di discussione -e di autocritica- in seno al governo e ai suoi sostenitori. In uno dei tanti scritti che Lenin indirizzò alla Segretaria Esecutiva di Alianza PAIS il 30 marzo 2016, l’attuale candidato alla presidenza fa una chiara autocritica su questi temi e si chiede: “Che cosa ci ha allontanati da alcune organizzazioni di donne? Che cosa ci ha allontanati da settori del movimento indigeno? Che cosa ci ha allontanati da alcuni settori delle organizzazioni ambientaliste?”. Il modello estrattivo, la posizione fortemente anti-aborto di Correa e di parte della direzione del partito, un certo verticismo istituzionalistico e le denunce di clientelismo e corruzione hanno effettivamente allontanato buona parte delle organizzazioni sociali dal governo ecuadoriano. Una rottura chiara e motivata che, a fronte di uno scenario elettorale incerto, potrebbe costar caro al progressismo latino-americano.

[1] il Presidente uscente di Ecuador

 

Traduzione dallo spagnolo di Leopoldo Salmaso