Due settimane prima della scadenza fissata per la chiusura del campo rifugiati di Dadaab, Amnesty International ha accusato funzionari del governo del Kenya di fare pressioni sui rifugiati affinché rientrino in Somalia, dove rischiano di essere feriti o uccisi nel conflitto armato tuttora in corso.

A maggio, il governo aveva annunciato che il 30 novembre il più grande campo per rifugiati del mondo, dove hanno trovato riparo oltre 280.000 persone – per lo più rifugiati somali – sarebbe stato chiuso per ragioni di sicurezza, economiche e ambientali e per la mancanza di assistenza da parte della comunità internazionale. Dopo l’annuncio, funzionari del governo hanno rilasciato dichiarazioni alla stampa ed effettuato visite a Dadaab, intimando ai rifugiati di lasciare il campo prima della sua chiusura.

“I rifugiati di Dadaab si trovano tra due fuochi: andarsene prima della fine del mese o essere costretti a farlo con la forza e senza alcuna assistenza” – ha dichiarato Michelle Kagari, vicedirettrice per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e i Grandi laghi di Amnesty International.

“Queste azioni si pongono in contrasto con le assicurazioni fornite dal governo del Kenya alla comunità internazionale, secondo le quali i rimpatri sarebbero stati volontari ed eseguiti in sicurezza e dignità” – ha aggiunto Kagari.

Nel mese di agosto, ricercatori di Amnesty International hanno visitato Dadaab, intervistando singolarmente 56 rifugiati e svolgendo una discussione di gruppo con altri 35.

Due fratelli di 15 e 18 anni, rientrati in Somalia a gennaio, sono fuggiti e tornati a Dadaab quattro mesi dopo. Nel periodo in cui sono stati in Somalia, il padre è stato ucciso davanti ai loro occhi e sono stati reclutati con la forza dal gruppo armato al-Shabaab.

I pericoli relativi al conflitto armato in Somalia sono fortemente minimizzati dalle Nazioni Unite e dalle Ong che stanno facilitando le procedure di rientro nel paese dal campo di Dadaab. Ad agosto, per esempio, quando migliaia di persone erano coinvolte in queste procedure, le informazioni sulla sicurezza in Somalia fornite dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) erano ferme al dicembre 2015 e non davano dunque conto della crescente insicurezza in molte zone del paese. L’Onu e le Ong stanno aggiornando le loro informazioni ma non è chiaro quando termineranno e che dettagli riporteranno.

A questo va aggiunto che la Somalia, che attualmente deve fare i conti con oltre 1.100.000 profughi interni, non ha le risorse necessarie per affrontare un rientro su larga scala di rifugiati da Dadaab. Si registra un’acuta scarsità di rifugi, strutture mediche ed educative.

Nella maggior parte dei casi, i rifugiati intervistati da Amnesty International hanno detto che prenderebbero in considerazione l’abbandono di Dadaab solo se costretti dalle minacce del governo del Kenya.

Secondo una verifica condotta tra luglio e agosto dal governo e dall’Unhcr, solo il 25 per cento dei rifugiati sarebbe disposto a tornare in Somalia, a causa delle minacce del governo di costringerli comunque a farlo e del rischio di perdere il contributo economico dell’Unhcr.

Hadi, da 24 anni rifugiato a Dadaab, ha dichiarato: “[Le autorità del Kenya] ci stanno spingendo a rientrare in Somalia. Arrivano nei blocchi del campo con gli altoparlanti e ci dicono: ‘Dovete registrarvi per tornare in Somalia. Se non lo fate, partirete a piedi coi vostri figli sulle spalle'”.

La sua testimonianza fa eco a quella di Samira, che si trova a Dadaab da otto anni: “La gente pensa che dopo novembre non ci sarà più il piccolo contributo per il ritorno e non ci saranno trasporti. Allora vanno via per non perdere i soldi e il passaggio”.

Alla maggioranza dei rifugiati che non intendono tornare in Somalia, né il governo del Kenya né la comunità internazionale stanno offrendo alternative. Alle ragioni per cui non vogliono lasciare Dadaab oltre all’insicurezza, molte delle persone incontrate da Amnesty International – soprattutto quelle con disabilità e gli appartenenti alle minoranze etniche – hanno aggiunto la mancanza dei servizi essenziali e la paura di subire discriminazioni.

Mouna, madre di un bambino disabile, ha detto: “In Somalia non esistono strutture per le persone disabili. In quanto rifugiati, già siamo considerati ultimi in tutto. Avendo bambini disabili ci ritroveremmo in fondo alla fila per ricevere aiuti”.

Amina, madre di un figlio di sei anni affetto da albinismo, è preoccupata: “Un altro grande motivo per cui non vogliamo ritornare in Somalia è che lì la gente non capisce cos’è l’albinismo. Già qui al campo qualcuno sostiene che ho un figlio illegittimo, che si tratta di uno straniero. Gli altri bambini lo prendono di mira perché è diverso. In Somalia sarà persino peggio e non potrà neanche avere la crema protettiva per la pelle”.

La mancanza del sostegno internazionale al Kenya, che si manifesta con l’insufficiente finanziamento dei programmi umanitari e le scarse opportunità di reinsediamento per i rifugiati più vulnerabili, ha contribuito alla tremenda situazione in cui si trovano gli abitanti di Dadaab. Il Kenya è uno dei 10 paesi che ospitano più della metà dei 21 milioni di rifugiati del mondo.

“Le crescenti restrizioni adottate dal Kenya nei confronti dei rifugiati somali vanno collocate nel contesto del vergognoso rifiuto dei paesi ricchi di accettare la loro parte di responsabilità. Invece di concentrarsi sul ritorno dei rifugiati in Somalia, dove rischierebbero di subire ulteriori violazioni dei diritti umani, la comunità internazionale dovrebbe agire insieme al Kenya per trovare una soluzione sostenibile e di lungo termine” – ha commentato Kagari.

“Questa soluzione dovrebbe prevedere l’aumento dei posti a disposizione per il reinsediamento dei rifugiati più vulnerabili e l’individuazione di forme d’integrazione dei rifugiati nei paesi che li ospitano, fuori dai campi, col pieno sostegno della comunità internazionale” – ha concluso Kagari.

Ulteriori informazioni
Le informazioni fornite ad Amnesty International dai rifugiati intervistati sono state confrontate con fonti governative e non governative che operano all’interno di Dadaab e che si occupano di politiche in materia di rifugiati. I ricercatori di Amnesty International hanno esaminato tutte le ricerche già svolte sulla situazione dei rifugiati in Kenya così come le normative e le politiche vigenti a livello nazionale.

Il Kenya ospita oltre mezzo milione di rifugiati, almeno 330.000 dei quali sono somali. Di questi, circa 260.000 si trovano nel campo di Dadaab.

Il sostegno della comunità internazionale al Kenya è limitato. Al 31 ottobre 2016, l’appello dell’Unhcr per un finanziamento di 272 milioni di dollari era stato coperto appena per il 38 per cento.

In tutto, 5001 rifugiati sono stati reinsediati dal Kenya, oltre 3500 dei quali negli Usa. Solo 671 rifugiati vulnerabili sono stati reinsediati nei paesi dell’Unione europea. Nel 2016 vi sono state finora 1648 partenze verso gli Usa e 118 verso i paesi dell’Unione europea.

Negli ultimi anni, una serie di attentati compiuti da al-Shabaab (tra cui quello del 2013 a un centro commerciale di Nairobi e quello del 2015 all’università di Garissa) e la percezione che la situazione della sicurezza in Somalia stesse migliorando, hanno fatto aumentare la pressione delle autorità del Kenya sui rifugiati somali affinché tornino nel loro paese.

La Somalia è sconvolta da oltre 20 anni di conflitto. Gli scontri tra le forze governative, sostenute dalle truppe dell’Unione africana, e i combattenti di al-Shabaab hanno causato gravissime violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione civile e la devastazione dei servizi e delle infrastrutture di base.

FINE DEL COMUNICATO
Roma, 15 novembre 2016

Il rapporto “Nowhere else to go. Forced returns of Somali refugees from Dadaab refugee camp, Kenya” è disponibile presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia e online all’indirizzo: http://www.amnesty.it/kenya-rifugiati-obbligati-a-tornare-nella-somalia-in-guerra