la IV puntata del reportage di Vittorio Agnoletto dal Festival del Cinema di Locarno

UN PASSATO ANCORA TROPPO   RECENTE

Fra l’attualità e la Storia non c’è una frontiera precisa e non c’è dubbio che le guerre dei Balcani, conseguenti alla distruzione della Jugoslavia, si collochino ancora in quel confine incerto che rende molto complesso e potenzialmente ambiguo il ruolo del cinema.

“Brat Dejan – Fratello Dejan” del regista Bakur Bakuradze nato a Tiblisi nel 1969, ripercorre l’ultimo anno di vita di Dejan Stanic. Un ex generale della guerra balcanica, ricercato dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, che dopo aver vissuto per vari anni nascosto in basi segrete trascorre gli ultimi mesi in piccoli villaggi di montagna. Nel racconto, ma ancor più in ciò che si percepisce, piuttosto che in ciò che si vede, è palpabile il continuo confronto tra le atrocità delle quali è ritenuto colpevole il generale e per le quali si esprime la condanna della comunità internazionale e il sostegno e l’ammirazione che gli tributa la “sua” gente. Lo spettatore è stretto e combattuto tra queste due percezioni, in un film che resta estremamente introspettivo e che è stato criticato da versanti diversi con l’accusa ora di essere troppo indulgente, ora di fornire una lettura a senso unico di quelle vicende.

The Waiting Room

Anche in “The waiting room”   del regista Igor Drijaca nato a Sarajevo, il protagonista è un uomo solo, anch’egli proveniente dalla ex Jugoslavia con l’inevitabile destino di dover fare i conti con il proprio passato che in questo caso era però quello di un attore di grande successo. Emigrato in Canada cercherà in tutti i modi di ritrovare il proprio ruolo professionale, ma la vita è rimasta in Bosnia. Lo scenario storico-politico resta sullo sfondo; il centro del film è occupato dalla figura del rifugiato, da un’esistenza spaccata in due: due identità esistenziali inconciliabili, due famiglie (come spesso accade in situazioni simili), due ipotesi confuse di futuro, due mondi relazionali fra loro incomunicabili. E un’immensa solitudine che non è condivisibile con nessuno. Una condizione umana oggi vissuta da milioni di persone ad ogni latitudine del pianeta che, nell’epoca della globalizzazione, ripropone fortemente la questione delle radici, dell’appartenenza ad una comunità e del dramma di chi è destinato a vagare senza più un orizzonte capace di rappresentare per lui una meta raggiungibile e significativa.

Kiev Moscow 1

“Kiev/Moscow. Part 1” della giovanissima Elena Khoreva mostra le rivolte che nell’inverno 2013-2014 hanno travolto il governo ucraino. La prossimità temporale degli eventi li colloca ancora nella sfera dell’attualità politica di per sé incompatibile con un giudizio storico compiuto e questo avrebbe reso difficile per chiunque la realizzazione di un cortometraggio.

A questa valutazione se ne aggiunge un’altra altrettanto ovvia: mostrare delle riprese di scene reali o mandare in onda interviste a protagonisti degli eventi di cui si narra non significa di per sé mostrare “la verità”, ammesso e non concesso che si possa utilizzare questa categoria in una situazione dove è destinato a prevalere il giudizio politico. Le immagini, i filmati, le persone alle quali rivolgere le domande sono numerosissime, la scelta di cosa mostrare è del tutto soggettiva e dipende dalla chiavi interpretative del regista.

In settanta minuti di filmato non c’è una parola o un’immagine sul ruolo che i gruppi dell’estrema destra hanno svolto in quei mesi e che svolgono tutt’ora nel panorama ucraino. Un’assenza troppo grande per essere causale e difficile da giustificare, come ha tentato di fare le regista, assicurando che ne parlerà nel prossimo filmato che dovrebbe completare l’opera. Ma il pubblico in sala applaude, quasi infastidito da chi, e sono più d’uno, si permette osservazioni critiche. L’informazione a senso unico dei nostri media ha fatto un buon lavoro, ha ottenuto il risultato atteso. Ma i festival servono anche per discutere e, se si riesce, per stimolare un qualche senso critico.

 

 

IL SILENZIO E’ TORNATO SUL MAGHREB

Quest’anno la sezione “Open Doors” ospitava i Paesi del Maghreb, Tunisia, Marocco e Algeria, ma il livello medio dei film presentati non è stato dei migliori; non è un caso che negli anni scorsi, a ridosso delle primavere arabe fossero arrivati a Locarno documentari di estremo interesse sulle trasformazioni in atto nella regione. Oggi nulla di tutto questo. La Storia si arresta, sembra tornare indietro e il cinema pare incapace di inventare, di sognare, di proporre qualcosa. In alcuni casi è parso quasi che i film si esaurissero nel mostrare gli stupendi paesaggi di deserto, montagne e fiumi presenti nella regione.

La Fievre

E’ il caso di “The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers” “ Il cielo trema e la terra ha paura e i due occhi non sono fratelli” o di “Historia de Juda”. In particolare in questo ultimo film, di produzione franco-algerina, il tentativo di illustrare la storia di Gesù attraverso gli occhi delle popolazioni arabe oggi viventi era indubbiamente un’idea potenzialmente intrigante, trasformatasi invece in un’occasione persa.

Una delle poche eccezioni è parso essere “La Fievre” “La febbre”, della marocchina Safia Benhaim interessante tentativo di fare i conti, attraverso gli occhi di una bambina, con la decolonizzazione e con i cambiamenti sociali più recenti.

 

…..continua

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