Quelli che si sono consumati a margine di una manifestazione di protesta, a Mitrovica, domenica scorsa, 22 giugno 2014, sono già stati etichettati come gli scontri più gravi degli ultimi cinque anni in Kosovo. Sempre difficile svolgere una comparazione, in questi casi: come sempre, nel lungo dopo-guerra kosovaro, molte sono le variabili in gioco e tanti gli equilibri di cui tenere conto, dalle periodiche escalation di tensione, spesso legate a circostanze politiche o frangenti elettorali, alla condizione di insoddisfazione e frustrazione diffusa. Un vero e proprio mix di violenza latente e di bisogni insoddisfatti, da un lato all’altro del corso dell’Ibar che, simbolicamente e concretamente, divide (sempre di più, purtroppo) le comunità salienti, quella albanese-kosovara e quella dei Serbi del Kosovo.

Sulla stampa si sono lette diverse ricostruzioni di quello che è accaduto a Mitrovica, la città divisa, il simbolo del conflitto e l’epicentro dello scontro. A nord, nella città serba, Kosovska Mitrovica, l’ampia maggioranza serba-kosovara e quartieri difficili, in cui si sperimentano fragili equilibri e precarie relazioni tra gruppi e comunità, con albanesi, bosniaci e montenegrini, ad esempio, a Bosnjak Mahala, ma ancora tra serbi ed albanesi presso le Tre Torri o ancora nella storica collina del minatore, Kodra Minatoreve o Mikronaselije. Non si rende mai pienamente giustizia a questa città, infatti, se, oltre al conflitto e alla divisione, non se ne ricordano, almeno, il glorioso passato industriale (la Trepca, la fabbrica, il kombinat) e la lunga, passata storia di convivenza, ai tempi della Jugoslavia socialista. A sud, nella Mitrovice albanese, che si espande a vista d’occhio, la quasi assoluta maggioranza albanese-kosovara e qualche presenza turca e rom, nel quartiere gitano, Roma Mahala, anch’esso non distante dal ponte. Il Ponte Centrale (Main Bridge), è come una calamita, ma talvolta diventa una polveriera.

La comunità internazionale aveva salutato, nella notte tra il 17 ed il 18 giugno, la rimozione delle barricate erette all’indomani della crisi dei valichi e dell’ultima grave escalation di tensione tra le due comunità, che da più di tre anni, sul lato serbo, impedivano il traffico veicolare e costituivano una vera e propria barriera, un confine di fatto, tra il Kosovo Centrale ed il Kosovo Serbo. Perfino l’ex ministro italiano della Difesa, Mario Mauro, si era spinto a dichiarare che tale operazione poteva rappresentare «un tangibile successo dell’Unione Europea, che si è fatta garante degli accordi tra la Serbia e il Kosovo, dando una prospettiva di integrazione alle due comunità, ma anche dell’Italia, che sta giocando un ruolo di grande responsabilità nel paese». Immediatamente smentito dai fatti nel giro di poche ore, visto che al posto delle barricate, la cui rimozione era stata peraltro concordata tra le autorità locali, i serbi hanno pensato bene di disporre una fila di fioriere e costituire una sorta di Peace Park. Un gesto passibile delle più diverse interpretazioni: segnale di distensione o provocazione?

Fatto sta che, al netto delle speranze che la rimozione delle barricate poteva indurre, la conferma, da parte serba, del blocco del passaggio veicolare verso nord ha ridato fiato alla propaganda nazionalista e offerto il destro per una nuova risposta, stavolta violenta, da parte degli estremisti della parte albanese-kosovara. Se per i serbi, infatti, il blocco del ponte costituisce un segnale di auto-difesa contro azioni unilaterali o di conquista del nord da parte dell’auto-governo di Pristina, per gli albanesi esso rappresenta una violazione dell’auto-determinazione ed anche un limite alla libertà di movimento. Non solo percezioni, dunque, ma anche bisogni contrapposti, su cui l’esercizio della propaganda politica e della retorica nazionalista ha buon gioco nello scatenare la violenza.

Così, domenica scorsa, 22 giugno, una manifestazione degli albanesi-kosovari per protestare contro l’“inaugurazione” del Peace Park sul ponte ha dato luogo a una vera e propria escalation di violenza, quando un centinaio dei circa cinquecento manifestanti si è lanciato contro il ponte, ha provato a sfondare il cordone di polizia locale e internazionale e ha attaccato il convoglio locale della missione europea (EULEX). Alla fine si sono contati 20 feriti, di cui 13 tra le forze dell’ordine e 4 mezzi dati alle fiamme. Come in un eterno “gioco dell’oca”, il Kosovo sembra ricacciare sempre le speranze di pace alla casella di partenza. C’è da sperare che la lezione della storia richiami non solo le leadership locali, ma anche la comunità internazionale, alla responsabilità e all’esigenza di “fare la pace”.