Aumentare le spese militari, nonostante i tanto paventati “tempi di crisi”, sembra restare una pratica all’ordine del giorno. Sicuramente lo è per la Cina, che ha annunciato per il 2014 un incremento del 12,2% rispetto all’anno scorso. Sullo sfondo, le tensioni con il Giappone nel Mar Cinese Orientale per le isole Senkaku (in giapponese)/Diaoyu (in cinese), nei pressi delle quali si trovano importanti giacimenti di petrolio e gas.

Motivi identici portano il gigante dell’Asia a competere con India, Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan per il Mar Cinese Meridionale, che è in più una zona estremamente strategica per il passaggio di gran parte dei commerci marittimi mondiali.

Altre situazioni di conflitto che vedono la Cina protagonista sono il contrasto storico con gli Stati Uniti (che spalleggiano il Giappone e sono presenti in Estremo Oriente) e le “minacce” alla stabilità regionale in Europa Orientale (il caso ucraino e le mire dell’alleato russo) e nel Vicino Oriente (la Siriadell’amico Assad in subbuglio). Per non parlare del contrasto all’indipendenza di Taiwan o della repressione dei movimenti separatisti inTibet, complicati giochi di potere tra potenze mondiali che si risolvono in bollettini di vittime innocenti.

È per tutti questi motivi che Li Keqiang, premier cinese, ha comunicato l’intenzione di spendere per il comparto della difesa, quest’anno, ben 808 miliardi e 230 milioni di yuan (ca. 96 miliardi di euro), durante il discorso di apertura alla prima seduta annuale del Parlamento della Repubblica Popolare, denominato Assemblea Popolare Nazionale (APN). Si tratta del proseguimento di un trend ascensionale: il 12,2% rispetto al bilancio del 2013, che a sua volta aveva già registrato un aumento del 10,7% di spese militari rispetto all’anno prima (ne parla, tra gli altri, l’americano Bloomberg). Un investimento di tale portata servirà al potenziamento dell’esercito di terra e soprattutto della marina, nonché al finanziamento della ricerca per costruire armi a sempre maggiore contenuto tecnologico.

La Cina del presidente Xi Jinping si conferma così come il secondo paese al mondo per budget militare. Terza è la Russia, mentre si registra una tendenza all’incremento nel Golfo (ad Abu Dhabi di recente si è tenuto anche un importante salone del settore), in Est Europa e nel cosiddetto Sud del mondo (come riportato in un nostro articolo del 2013). L’Italia, che spende miliardi in cacciabombardieri F35, continua ad essere non solo acquirente ma anche grande fabbricatore ed esportatore.

Il Giappone ha ovviamente replicato esprimendo preoccupazione per questi programmi. Un simile botta-e-risposta, a parti invertite, era già andato in scena lo scorso dicembre, quando invece era stata Tokyo, per bocca del presidente conservatore Shinzo Abe, ad annunciare la crescita del budget militare.

La Cina, così come il Giappone, sembra quindi votata all’attacco, anche se ufficialmente giustifica le sue intenzioni con l’autodifesa e la volontà di assicurare la stabilità nella regione estremo-orientale del pianeta. Una stabilità basata sulla paura e sul possesso di armi: la stessa strategia attuata dalla Nato, che ha sparso basi per tutta l’Europa e mantiene saldi i baluardi di Israele ed Arabia Saudita (in Medio Oriente) e Giappone (in Estremo Oriente, appunto).

Pechino continua ad inseguire un’economia di guerra, come tutte le potenze del mondo e come fanno anche piccoli stati come la Corea del Nord, e la cosa dovrebbe preoccuparci. In controtendenza rispetto agli incontri internazionali che promuovono il disarmo, il pianeta è ancora ricco di strumenti di morte, anche nucleari, e parallelamente è teatro di guerra. L’assioma secondo il quale il possesso generalizzato di armi costituirebbe il miglior strumento per prevenire conflitti bellici è stato smentito dalla Storia più e più volte: i conflitti armati sono all’ordine del giorno, basta anche sfogliare velocemente quello che viene raccontato tutti i giorni in questo giornale.

Non è un segreto, anche se spesso facciamo finta di non saperlo, che la principale ragione per cui le guerre si combattono è proprio l’enorme mole di affari relativa al comparto bellico. Detto brutalmente, si fa la guerra perché si devono vendere armi. Un circolo vizioso che l’umanità dovrebbe avere il coraggio di interrompere, se vuole avere un futuro.

Domenico Musella