Sono contrastanti le reazioni all’accordo raggiunto sabato a Bali dai delegati dei 159 paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto). A chi mette in evidenza le prospettive di crescita a livello globale risponde chi conferma i dubbi sulla possibilità di ridurre gli squilibri tra le potenze industriali e i paesi poveri attraverso la liberalizzazione degli scambi.

Secondo Romain Benicchio, consulente dell’organizzazione umanitaria Oxfam, l’accordo raggiunto nell’isola indonesiana non è in grado di “migliorare le condizioni di vita” dei poveri del mondo. “Le misure non cambieranno granché per i paesi meno sviluppati – ha aggiunto Benicchio – ma almeno tengono vivi i negoziati sulla sicurezza alimentare; i negoziatori dell’Omc devono ora trovare soluzioni a lungo termine per cambiare regole truccate che ostacolano le politiche per la sicurezza alimentare dei paesi in via di sviluppo”.

L’appello a proseguire le trattative a Ginevra, la sede dell’Organizzazione mondiale del commercio, è condiviso da molte ong. Anche perché i dieci punti concordati dovevano essere sufficientemente generici da consentire un’intesa all’unanimità, la prima dopo i fallimenti seguiti all’accordo del 1994 al termine del cosiddetto Uruguay Round.

Secondo monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, l’intesa di Bali è “storica” perché contempla “misure che aprono la strada alla solidarietà internazionale favorendo lo sviluppo di tutti i paesi”. Molto differente la posizione degli attivisti indiani di Right to Food Campaign, critici nei confronti dell’esito di Bali nonostante i risultati ottenuti da New Delhi. Secondo Biraj Patnaik, coordinatore dell’ong, il fatto che le esenzioni sui sussidi agli agricoltori siano state ottenute solo dall’India è “una dichiarazione di bancarotta per il libero commercio”.

I dieci punti concordati in Indonesia riguardano temi vari e complessi. Tra questi la facilitazione del commercio, l’agricoltura e i servizi generali, lo stoccaggio di materie prime ai fini della sicurezza alimentare, la concorrenza nelle esportazioni, il rinvio della liberalizzazione dei servizi e l’accesso ai mercati per i paesi poveri produttori di cotone.