Di fronte ai “soliti” disastri autunnali, al catastrofismo, al fatalismo, allo scaricabarile delle competenze, abbiamo chiesto a uno scienziato e allo stesso tempo a un volontario di una delle associazioni che in Sardegna è stata concretamente presente ed efficiente dal primo momento una opinione sulla situazione e su quello che ci sarebbe da fare “a bocce ferme” perché certe situazioi non si ripetano.

Carmine Lizza, geologo, responsabile Protezione Civile Anpas nazionale: qualcosa di più di lei?

Sono nato a Bergamo nel 1972 ed attualmente risiedo in Basilicata. Laureato in Scienze Geologiche indirizzo Geofisico Strutturale presso l’Università degli Studi della Basilicata nel 2001, svolgo la professione di Geologo come libero professionista e come titolare di una società di progettazione integrata specializzata sui temi del rischio sismico. Ho avuto diverse collaborazioni scientifiche con il Dipartimento di Strutture, Geotecnica, Geologia Applicata all’ingegneria dell’Università di Basilicata ed ho all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche sui temi della sismologia. Sono Responsabile nazionale della Protezione Cvile dell’Anpas (Associazione nazionale Pubbliche Assistenze) dal 2010.

 Lizza, lei è un geologo che si occupa, come volontario di alcune  attività  dell’ANPAS (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze): ce le potrebbe dettagliare?

Mi occupo del coordinamento a livello nazionale di tutte quelle attività legate alla previsione, prevenzione ed emergenza sui temi della Protezione Civile.

Lei ha rilasciato in questi giorni, a proposito della recente alluvione in Sardegna, alcune dichiarazioni che suonano come accuse da una parte ad alcuni media e dall’altra a chi ha amministrato il territorio; ce le potrebbe precisare e spiegare?

Qualche giorno prima che il ciclone si abbattesse sull’isola la popolazione è stata bersagliata, come sempre del resto, da una sorta di terrorismo mediatico da parte dei tanti siti di previsione meteorologica fai da te, (forte è l’interesse ad avere un elevato numero di click per via degli sponsor), che hanno annunciato l’evento assimilandolo a quelli che hanno colpito recentemente e in modo devastante le Filippine o peggio ancora ai tornado che hanno devastato gli Stati Uniti. Se ciò non bastasse, queste notizie sono state riprese da alcuni mass media, che non conoscendo la terminologia meteorologica o peggio ancora per fare sensazionalismo, hanno diffuso queste informazioni infondate generando confusione tanto da indurre la popolazione ad assumere comportamenti scorretti in rapporto all’evento che stava per abbattersi.

Per completare l’opera, la maggior parte delle istituzioni periferiche, hanno ignorato completamente l’evento non informando la popolazione neanche durante le fasi di emergenza.

È da sottolineare che la catena di comunicazione pur essendo partita correttamente ed in tempo (circa 30 ore prima!!!) dal Dipartimento Nazionale e Regionale della Protezione Civile, si è bloccata e non è arrivata fino ai cittadini. Molti sindaci intervistati, dopo la catastrofe, hanno ammesso candidamente di non sapere cosa fare in caso di avviso per un evento segnalato come a “criticità elevata” evidenziando una totale assenza di formazione che di fatto ha peggiorato il bilancio di un fenomeno che, per quanto estremo, non è stato purtroppo unico in Italia. Senza scomodare gli eventi degli ultimi anni, la stessa Sardegna, nell’autunno del 1951, è stata oggetto di precipitazioni molto più intense: caddero fino ad oltre 500mm di pioggia in 24 ore, 1000 in 48 e 1400 in 72 ore.

Il risultato? Le Istituzioni, a distanza ormai di qualche giorno, invece d’interrogarsi sull’accaduto montano il solito teatrino del rimpallo delle responsabilità fra le varie amministrazioni competenti. Ho seguito con molta attenzione l’accusa fatta dal Prefetto Gabrielli sulla mancanza dei Centri Funzionali, obbligatori dal 2004, in cinque regioni d’Italia tra cui la Sardegna, è impensabile credere di poter gestire al meglio questa tipologia di eventi senza tali strutture, che ricordiamo,  fanno da raccordo tra quello che viene previsto dai modelli matematici a scala nazionale con quello che avviene sul territorio regionale, in altre parole attraverso l’attenta analisi della fenomenologia in atto è possibile modellare quelli che sono gli scenari di rischio più probabili e la loro possibile evoluzione spazio temporale.

La lettura dell’emergenza nel momento di massima crisi permette di avere sotto controllo la gestione della macchina della protezione civile, che ricordiamo essere costituita non solo da volontari, allo svolgersi dell’evento segnalato e di conseguenza consente di concentrare l’intervento, dunque le risorse a disposizione, laddove risulta maggiormente necessario. Tale maggiore accuratezza permette, se esiste una pianificazione concreta e non solo sulla carta, di evitare sia assunzioni troppo conservative, dunque inutilmente dispendiose, che assunzioni non conservative con conseguenze potenzialmente gravi sulla sicurezza.

Adesso basta! È arrivato il momento di cambiare strategia ed innescare a tutti i livelli, cittadini ed amministratori, quel cambio culturale sui temi dell’autoprotezione e della protezione civile perché l’entità dei costi e delle vittime prodotte dalle catastrofi naturali ha superato abbondantemente la soglia di accettabilità.

Quanto l’ordinaria amministrazione che il mondo contadino faceva della sua terra, e di cui si è quasi ovunque perso la pratica, aiutava e potrebbe ancora aiutare a evitare le catastrofi?

È innegabile che l’abbandono delle aree montane e collinari da parte della popolazione attiva abbia portato ad una mancanza di manutenzione del territorio con un duplice effetto: l’incremento del carico sui versanti dovuto allo sviluppo della vegetazione boschiva e del sottobosco in aree precedentemente coltivate e la insufficiente regimentazione delle acque meteoriche di ruscellamento. Ma, occorre sottolineare però, che per quanto importante sia l’opera puntuale dell’uomo nella mitigazione degli effetti, da sola non può garantire la sicurezza dell’intero sistema territorio: è necessario che le Istituzioni competenti, impieghino una parte significativa dei fondi ordinari per effettuare innanzitutto una ricognizione puntuale dello stato di manutenzione delle opere idrauliche presenti e successivamente approntare, in tempi rapidi, un grande piano nazionale straordinario di pulizia e manutenzione del realizzato.

 Lei è un geologo: quanto influisce la corretta pianificazione del territorio nell’evitare queste catastrofi? E cosa andrebbe fatto immediatamente per non parlare di mancanza di prevenzione la prossima volta?

In termini generali, l’elevata pericolosità geomorfologica ed idraulica, cui è soggetto il nostro paese è dovuta essenzialmente alla natura geologicamente giovane del territorio italiano, caratterizzato, da versanti acclivi, da rocce particolarmente friabili e corsi d’acqua con un regime per lo più torrentizio. È innegabile però che la propensione allo sviluppo di frane ed alluvioni nel nostro paese, oltre ad avere un connotato intrinseco naturale è incrementato da una non adeguata gestione umana, infatti a questo quadro di pericolosità generale va aggiunta la recente cementificazione diffusa, spesso fuori controllo e non conforme alle caratteristiche intrinseche dei territori, che ha incrementato l’entità del deflusso superficiale a discapito dei processi di infiltrazione. In prossimità ed all’interno dei centri abitati abbiamo il fenomeno della canalizzazione selvaggia dei corsi d’acqua al fine di conquistare spazi per nuove edificazioni in territori di pertinenza fluviale che hanno determinato un drammatico incremento delle condizioni complessive di rischio. Se ciò non bastasse, le amministrazioni, quasi sempre affidano la progettazione e l’esecuzione dei lavori ad imprese e progettisti con il criterio del massimo ribasso che oltre a non prevedere un necessario piano specifico di manutenzione dell’opera realizzata mettono gli stessi nelle condizioni di eseguire lavori non adeguati sia rispetto al contesto che alle leggi di riferimento.

In Italia, quello che manca veramente, non è la pianificazione ordinaria del territorio, ma semplicemente la mancanza di applicazione di quelle norme che ahimè sono state rese obbligatorie ad ogni esperienza luttuosa subita nel corso degli anni e che fondano la loro forza sulla lettura attenta delle dinamiche morfoevolutive specifiche dei territori.

Se avessimo la forza ciascuno per le proprie competenze, cittadini compresi, di fare applicare quanto normato e di segnalare preventivamente eventuali abusi, sicuramente avremmo innescato nel tempo un percorso virtuoso sui processi di gestione rispettosi del territorio e capaci di arginare quei fenomeni, evidenziati in precedenza, che portano allo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali e che rendono sempre più labile l’equilibrio di coesistenza tra dinamiche antropiche ed il sistema ambientale. È necessario sottolineare che il sistema funziona se le scelte progettuali disegnate sulla base di  esigenze tecnico /scientifiche sono fondate su strategie partecipative che diventano patrimonio della politica una volta che sono state inglobate dal DNA dei cittadini. Per fare questo, è necessario, dunque intervenire con una grande campagna di prevenzione dai rischi.

La prevenzione è un tema molto complesso che deve coinvolgere tutti i protagonisti della società civile, ed in particolar modo dovrà avere un forte sostegno, oltre che dallo Stato, anche da parte della società civile attraverso l’impegno concreto da parte delle grandi Organizzazioni di Volontariato affinché diventi una cultura consolidata tra le persone.

Il radicamento e la conoscenza storica del territorio e delle comunità mette, queste ultime, nelle condizioni di poter informare e sensibilizzare i cittadini al tema della prevenzione dai rischi. Questa nuova attività sperimentata con notevole successo negli ultimi anni con il progetto “Io non rischio” induce nelle persone la consapevolezza dell’auto protezione promuovendo allo stesso tempo un cambiamento culturale rispetto alle tematiche affrontate. A partire da subito, bisogna strutturare, sull’intero territorio nazionale, una campagna di comunicazione ed informazione capillare sui rischi naturali che abbia tra i suoi principi basilari metodologie di prevenzione e regole elementari di autodifesa che devono entrare a fare parte del corredo genetico di ogni cittadino.

A questa azione vanno aggiunte esercitazioni sul campo, basate sulla pianificazione di emergenza, rivolte ai cittadini ed agli amministratori che migliorino il grado di preparazione della comunità a rispondere alle emergenze attraverso dei modelli predefiniti per aumentare la coscienza razionale del pericolo e la conoscenza diffusa di alcuni modi e comportamenti che, tra l’altro, notoriamente riducono il panico e gli effetti caotici propri delle fasi dell’emergenza.

 Queste azioni possono essere ascritte alle “piccole opere” che molti chiedono al posto delle “grandi opere” a cui sembra non si voglia assolutamente rinunciare?

Lo scenario disegnato, dagli ultimi eventi alluvionali, ha evidenziato da un lato l’estrema fragilità del nostro Paese e dall’altro l’immenso lavoro che si prospetta per mettere in sicurezza territori, persone ed economia, come già detto in precedenza, l’Italia non ha bisogno di “grandi opere” ma di tante piccole opere che di fatto nel loro insieme costituiscono un grande piano di investimento diffuso capillarmente sull’intero territorio nazionale che non dimentichi tra l’altro anche la messa in sicurezza delle scuole, degli ospedali, degli edifici pubblici anche dal rischio sismico. Tale sistema d’investimento, tra le altre cose, rimetterebbe in moto ed in maniera diffusa, (e non per pochi!!!), l’economia vera quella della piccola e media impresa.

È il momento di incrementare la resilienza della nostra società attraverso azioni concrete di mitigazione ed adattamento avviando finalmente quella politica di cui il paese ha realmente bisogno.

 

Un ringraziamento ad Andrea Cardoni dell’ufficio stampa ANPAS per la realizzazione dell’intervista