Le recenti vicende politiche italiane, come la nomina di una donna di origine congolese a Ministro della Repubblica, unite ai cori razzisti all’insegna di giocatori di origine africana negli stadi di calcio, hanno riportato alla ribalta la questione dello ius solis e in particolar modo la questione del razzismo.

Negli ultimi tempi il tema del razzismo sembrava finito in una sorta di limbo in cui si nascondevano le vergogne dei respingimenti, la disumanità dei CIE1, l’incostituzionalità della legge Bossi-Fini, gli assalti ai campi nomadi, le resistenze a concedere l’asilo politico ai rifugiati, lo sfruttamento schiavista di manodopera straniera e tutti quegli episodi precisamente razzisti che nella quotidianità manifestano un certo odio, risentimento e paura nei confronti del migrante, dello straniero, del diverso.

Sembrava calato un certo silenzio sul tema che aveva quasi cancellato la parola “razzismo” dal dizionario, una forma di rimozione che spingeva ad esorcizzare un senso di colpa. Un modo di dimenticare per continuare a comportarsi da razzista senza che la coscienza ti ricordi continuamente la tua disumanità, ma soprattutto senza che più nessuno si ribelli alla tua violenza. E’ come se da un lato si fosse compresa la mostruosità del razzismo, ma dall’altro non si volesse rinunciare a comportarsi da razzista.

Il razzista è spesso il primo a negare di esserlo, come se, per un momento, sentisse sulla propria pelle il marchio dell’infamia, quello stesso marchio che però non esita a imprimere a fuoco quando disprezza e odia l’extracomunitario, il negro, lo zingaro, il frocio , il mongoloide.

Molto si è detto circa l’assurdità del razzismo e delle incoerenze e le contraddizioni di un tale atteggiamento sul piano personale, politico e sociale, ma quasi mai si è cercato di approfondirne l’origine senza cadere nell’inconsistenza di una genesi tutta emozionale, in cui la paura dell’ignoto debba necessariamente produrre un viscerale rifiuto, senza comprendere invece come quello stesso timore generi in altri un certo fascino.

Restando ben consci che una tale riflessione non possa considerarsi definitiva, cercheremo di approfondire l’origine del razzismo fornendo un punto di vista e un approccio differente.

Innanzitutto, si intende generalmente per razzismo quel particolare atteggiamento discriminatorio che parte dalla convinzione che esistano delle razze umane distinte, con caratteristiche e capacità peculiari. Una convinzione che arriva ad affermare la superiorità o meno di una razza sull’altra.

Il razzismo quindi s’inserisce nella categoria più ampia della discriminazione e quindi della violenza, che come sappiamo si può esprimere nel campo politico, religioso, sessuale, economico, nonché etnico-razziale.

Questa definizione però non ci dice molto sulle origini del razzismo.

E’ certo, che a volte, il razzismo è funzionale a minoranze per continuare a mantenere una porzione di potere politico o economico. Si potrebbe quindi dire che interi gruppi umani adottano un atteggiamento razzista e più in generale discriminatorio, per questioni di convenienza, di opportunità, per mantenere privilegi. Ma questo modo di vedere un po’ economicista non sembra sia esaustivo per spiegare l’assurdità del fenomeno.

Il razzismo, così come lo abbiamo conosciuto in Occidente, ha visto nei regimi nazi-fascisti la sua massima espressione; non si limitava alla sottomissione dell’altro, ma si è spinto a ipotizzare e pianificare lo sterminio di milioni di esseri umani.

Per spingersi fino a quel punto non basta affermare che esiste una razza superiore. Bisogna dire che l’altra razza è un pericolo, una minaccia alla propria integrità di “razza pura”.

Hitler descriveva gli ebrei in questo modo: “ Gli Ebrei sono come i vermi che si annidano nei cadaveri in dissoluzione.” E ancora “L’ebreo è colui che avvelena tutto il mondo. Se l’ebreo dovesse vincere, allora sarà la fine di tutta l’umanità, allora questo pianeta sarà presto privo di vita come lo era milioni di anni fa.”

L’odio di Hitler per il mondo ebraico non era uno strumento politico per incanalare la rabbia del popolo su un capro espiatorio, era profondamente reale quanto irrazionale.

La sua era una missione, la missione che aveva come compito la difesa della purezza della razza ariana, unica, nella sua folle concezione, capace di realizzare  il destino di grandezza e superiorità, così come lo concepivano alcuni teosofi e ariosofi di moda in quell’epoca.

Ma da dove e come sorge questa idea di purezza?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo andare molto indietro nella storia. Dobbiamo arrivare a circa 3500 anni fa e collocarci nella civiltà persiana. In quell’epoca nasce lo Zoroastrismo, o come dir si voglia il Mazdeismo, la prima religione monoteista con una forte impronta manicheista. E’ con lo Zoroastrismo che nascono concetti come il paradiso e l’inferno, la resurrezione dei morti e il Giudizio Finale.

Per lo Zoroastrismo esiste un lotta continua tra il bene e il male; al termine di tale lotta il male sarà definitivamente sconfitto, il cosmo verrà purificato in un bagno di metallo fuso e le anime dei peccatori saranno riscattate dall’inferno, per vivere in eterno, entro corpi incorruttibili, alla presenza di Ahura Mazda.

Una particolarità dello Zoroastrismo è il trattamento riservato al defunto. Considerato impuro e contaminante, il corpo non viene seppellito, ma esposto al sole e spolpato dagli avvoltoi.

Con lo Zoroastrismo s’introduce quindi, per la prima volta il concetto di contaminazione e il suo opposto, la purezza.

La forza dello Zoroastrismo lo porterà a influenzare popoli e religioni ad esso limitrofe. Ad est ritroviamo questi concetti di contaminazione e purezza nell’Induismo, con tutte le norme che regolano le divisioni tra caste e nel Giainismo, che arriva a formulare una primitiva idea di batterio, al punto che gli adepti si coprono il viso con una retina per non respirarli e addirittura sono tra i primi gruppi umani che cominciano a filtrare l’acqua per renderla potabile. Queste ultime sembrerebbero valide norme igieniche, ma l’idea di fondo è sempre la contaminazione e il suo opposto, la purezza.

Ad ovest lo Zoroastrismo compie un’ampia opera di diffusione soprattutto nel mondo ebraico: nelle 613 mitzwòt, i precetti della Torah, ritroviamo un’espressione quasi ossessiva di questi concetti.

Come sappiamo il Cristianesimo eredita moltissimo dal mondo ebraico, ma l’Europa comincia a conoscere la visione zoroastriana già con la diffusione nell’Impero Romano del mitraismo, religione che deriva dal Dio persiano Mitra del pantheon zoroastriano.

Anche l’Islam subisce l’influenza dello Zoroastrismo; ne vediamo i risultati nella grande eresia sciita, oggi particolarmente presente proprio in quelle zone dell’Asia Minore che videro i natali dello Zoroastrismo.

Nel XX° secolo è inutile ricordare il “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche, di cui Hitler era un grande appassionato.

Insomma, il razzismo, quell’atteggiamento discriminatorio definito all’inizio, è la strenua difesa di un insogno di trascendenza. Il razzista vede nell’altro, nell’altra “razza”, nella diversità, una minaccia all’integrità del suo Io. La sola vicinanza, la sola esistenza del diverso da sé e in ultimo la stessa vicinanza ed esistenza del proprio corpo è per il razzista fonte di contaminazione. Il razzista trema all’idea di non riconoscersi, di perdere la propria identità, non solo perché questo gli causa alcuni problemi di ordine pratico, ma soprattutto perché teme di non realizzare più quell’insogno di trascendenza. E’ una tensione forte perché crede profondamente in quell’illusione che è l’Io.

Con il razzismo è l’idea di permanenza che si vuole affermare. C’è un tentativo tanto irrazionale quanto violento di arrestare il divenire, il movimento. Attraverso una concezione di natura idealizzata, statica, astratta, incontaminata si pretende di arrestare paradossalmente ciò che più caratterizza la natura, cioé il cambiamento.

In un epoca di mondializzazione come questa, in cui l’accelerazione tecnologica mette in discussione valori, credenze e aspirazioni, le mura a difesa dell’Io non riescono a respingere gli attacchi contaminatori di culture, gruppi umani, idee. La resistenza quindi si fa sempre più dura e più violenta.

Vediamo ora come questa idea della contaminazione sia oggi presente in molteplici aspetti, anche tra i più insospettabili.

Prendiamo per esempio il mondo della scienza. Non molto tempo fa, Stephen Hawkins, uno dei massimi astrofisici, affermava a proposito dell’esistenza di forme di vita extraterrestre: “ Una qualche forma di vita potrebbe essere intelligente e rappresentare una minaccia“ . Secondo Hawking dunque il contatto con una tale specie di vita extraterrestre potrebbe essere devastante per l’umanità. Aggiungeva: “Immagino che possano esistere in astronavi enormi, avendo esaurito tutte le risorse del loro pianeta natale. Tali alieni avanzati potrebbero essere diventati nomadi, cercando di conquistare e colonizzare qualunque pianeta possano raggiungere“. Hawking concludeva che “cercare di entrare in contatto con razze aliene è un po’ troppo rischioso. Se mai gli alieni ci visitassero, penso che il risultato sarebbe molto simile a quando Cristoforo Colombò sbarcò in America … e le cose non andarono bene per i nativi americani“.

Qui non si tratta di una persona ignorante, che è vissuta in una situazione di degrado umano. Qui parliamo di un professore universitario che ricopre la cattedra che fu di Isac Newton. Parliamo di un astrofisico che ha contribuito in modo particolare alla conoscenza dei buchi neri. Eppure quando una persona come Stephen Hawking si riferisce al massimamente diverso, come può essere una forma di vita extraterrestre, ne parla con la paura della contaminazione.

In campo ambientalista, ci furono negli anni Novanta dei gruppi in Germania che in un articolo de La Repubblica furono definiti come ecorazzisti. La tesi di questi gruppi era che la minoranza turca non era geneticamente abituata al freddo germanico e per questo motivo utilizzava maggiori quantità di gasolio per il riscaldamento. In altre parole bisognava espellere i turchi dalla Germania perché inquinavano, contaminavano l’ambiente. In certi correnti ambientaliste inoltre l’essere umano è interpretato come un virus dalle enormi capacità distruttrici.

Altro esempio della paura della contaminazione si coglie in alcune posizioni antropologiche definite come razzismo differenzialista, o fondamentalismo culturale. Esse ipotizzano, pur dando pari dignità ad ogni cultura, che se la vita di ognuno di noi, i nostri valori, le nostre convinzioni morali sono radicate in una ben precisa identità culturale, allora le culture e le identità non devono essere confuse e mescolate. Occorre preservarne l’integrità e l’autenticità di fronte alla confusione e al mescolamento e anche di fronte al rischio dell’omologazione che investe il mondo contemporaneo. Questo punto affonda le radici in alcune formulazioni antropologiche anche di grande prestigio, come quelle di Lévi-Strauss, che ha sostenuto la necessità di un certo grado di “sordità” reciproca fra le culture. Per il grande etnologo francese la diversità culturale è il bene massimo da preservare per l’umanità, poiché il progresso stesso è consentito non dalla prevalenza di una cultura su tutte le altre, ma dalla compresenza di molte culture diverse. Ciò significa che occorre certo favorire il dialogo e lo scambio, ma anche difendere le rispettive identità e confini, ed evitare contaminazioni troppo profonde che facciano perdere appunto il senso della diversità. Queste posizioni di Lévi-Strauss sono poi riprese da Alain de Benoist, scrittore ed intellettuale della destra francese, secondo cui “tutti i popoli devono preservare e coltivare le proprie differenze”, e “l’immigrazione è condannabile perché mette in pericolo l’identità della cultura di accoglienza, così come l’identità degli immigrati”.

Questi sono solo alcuni esempi di come questa idea della contaminazione sia radicata e si annidi anche in contesti ed individui apparentemente esenti.

Questo accade perché non parliamo di un’ideologia, di una correntucola alla moda, di un fenomeno culturale. Parliamo di un insogno fondamentale nell’essere umano.

Forse se andassimo in profondità scopriremmo che anche noi qui presenti, in una certa forma, in una certa misura paradossalmente ne siamo subdoli sostenitori.

Come possiamo superare il razzismo?

Pierre-André Taguieff, sociologo e filosofo francese, in suo saggio sulla questione antirazzista scriveva: “E’ un paradosso ormai comune dell’antirazzismo il fatto che i suoi sostenitori rovescino sull’avversario “razzista” i modi di rappresentazione e di stigmatizzazione che gli attribuiscono. Si pensi a espressioni come “Sporco razzista!”, o come in Francia si è talvolta detto, “Gasiamo i lepenisti!”. Insomma, gli spiriti antirazzisti sono impregnati di razzismo.

In alcune sue declinazioni più ideologiche, il neorazzismo finisce per costruire un nemico assoluto e astratto – il “razzista”, figura negativa centrale di un grande mito repulsivo, seguace del Male assoluto, in un modello dicotomico che interpreta le vicende del mondo come scontro tra un Male assoluto e un Bene assoluto. Si tratta di un rischio estremamente reale per un certo antirazzismo militante e dogmatico, troppo preoccupato di dividere il mondo in buoni e cattivi”.

Taguieff non ci dice come superare il razzismo, ma indica ciò che non lo supera e segnala   alcuni comportamenti di sedicenti antirazzisti che riproducano lo stesso schema che si dice di combattere.

Prima di rispondere dovremmo però chiederci se questa sia la  domanda giusta. Da quanto esposto finora dovremmo forse porci la questione in questi termini: come si scioglie la tensione legata alla paura della contaminazione?

Una possibilità sta nell’affermare una nuova direzione mentale, che trasformi quell’insogno di trascendenza così meritocratico, così dicotomico, così definitivo, in un insogno che produca speranza, apertura, futuro, comunicazione, intelligenza e profondità. Il razzismo non si supera relegandolo in un angolo, negandolo o tentando di annientarlo. Il razzismo si supera quando lo si comprende fino in fondo, nella sua ultima radice. Quando lo si considera per quello che è: un tremendo ed esistenziale errore di calcolo.

1CIE, acronimo per Centri d’Identificazione e Espulsione.