Man mano che ne vengono definiti i dettagli, il gesto violento contro i carabinieri che ha trasformato il giorno dell’insediamento del nuovo governo in una domenica macchiata di sangue, appare carico di riferimenti simbolici che rimandano plasticamente alle piaghe aperte nella carne viva del paese.

Mentre i ministri del governo Letta giuravano nelle mani del Presidente della Repubblica, sorridenti e ignari di quanto avveniva contemporaneamente in strada poco distante, un uomo quarantanovenne – emigrante in andata e ritorno, disoccupato per aver perso il lavoro nell’edilizia, separato dalla moglie e dal figlio perché rovinato dal gioco, partito da Rosarno, dove era tornato a vivere con gli anziani genitori, giunto a Roma per uccidere un ministro e farla finita con la vita – ha esploso il caricatore della pistola (acquistata al mercato nero delle armi) contro due carabinieri che sorvegliavano il palazzo del governo. Se non verrà scoperto nei prossimi giorni nessun altro misterioso movente, la biografia recente dell’attentatore contiene in sé, snocciolati uno ad uno, gli elementi del dramma che sta attraversando l’intera nazione. La tempistica scelta li scandisce come l’incedere di una tragedia greca. Dove la classicità si salda alla cronaca.

Questa violenza disperata – e lucidamente, seppur follemente, dispiegata – interpella tutti e chiama ciascuno alle sue responsabilità.

 

Interpella il governo appena insediato, a due mesi dalle elezioni, che ha giurato sulla Costituzione che fonda la democrazia repubblicana sul diritto al lavoro. Non c’è nessuna compatibilità europea, nessun andamento dei mercati, nessuna troika che possano imporre di continuare ad eludere il diritto al lavoro (al punto tale che negli ultimi 5 anni la disoccupazione è cresciuta dell’82,2% ) gettando milioni di persone nella disperazione. Il diritto al lavoro – un tempo si diceva alla piena occupazione – è un principio costituzionale non negoziabile da affrontare con un impegno straordinario di attive politiche pubbliche. Le risorse si trovano passando dal keynesismo militare al keynesismo civile, ribaltando le posizioni italiane tra il terzo posto nella UE per la spesa pubblica militare (dopo Francia e Germania) e il terz’ultimo per l’occupazione (prima di Spagna e Grecia). E’ una questione di sovranità popolare, anzi di vita o di morte.

Questa violenza interpella anche l’opposizione politica e sociale, nelle sue varie articolazioni, che deve essere rigorosa, puntuale e severa nel denunciare la distanza delle politiche governative dai bisogni e dai diritti delle persone, proponendo le misure alternative, ma deve essere ancora più rigorosa con se stessa nell’uso un linguaggio inequivocabilmente scevro da ogni violenza. Le parole sono pietre. Nessuno può permettersi di usarle in maniera violenta, sopratutto chi esercita responsabilità politica ed ha esposizione mediatica: qualcun altro le può trasformare in gesti di violenza concreta. Il rispetto dell’avversario, anche del più distante, è un principio minimo di civiltà. L’alternativa è il fascismo, comunque travestito.

Oggi sono necessari responsabilità, sobrietà di linguaggio e di gesti, rispetto integrale della Costituzione e saggezza. Un primo segnale importante e forte sul piano dei simboli che il Presidente della Repubblica, all’avvio del nuovo settennato, ed il Presidente del Consiglio, all’avvio del nuovo governo, possono dare nella direzione della responsabilità, della sobrietà, del rispetto della Costituzione e della saggezza è l’abolizione della parata militare del prossimo 2 giugno, festa della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Investendo i tre/quattro milioni di euro risparmiati per ciascun anno di legislatura a beneficio di politiche urgenti per il lavoro. Non risolveranno da soli il problema, ma almeno contribuiranno a riconnettere il paese alle sue istituzioni.

Pasquale Pugliese

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