Torniamo a occuparci, dopo il nostro articolo sulla schiavitù e l’apartheid e l’appello di Biram Dah Abeid, di un popolo offuscato nel cono d’ombra dell’opinione pubblica internazionale: quello mauritano. Lo facciamo incontrando Gianmarco Pisa, operatore di pace e attivista dell’ufficio italiano di IRA Mauritania.

di Domenico Musella

Come e perché nasce l’IRA – Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abrogazionista in Mauritania e cosa ha di specifico rispetto ad altre realtà che lavorano in loco?

La storia comincia con Biram Dah Abeid, fondatore e attuale presidente. Si occupa di lotta per i diritti umani e, nello specifico, di lotta contro la schiavitù. Biram ha una storia di militanza nella storica associazione Sos Esclaves, dalla quale è fuoriuscito con altri attivisti per caratterizzare di più il lavoro antischiavista nel senso del radicamento di massa. È una terminologia clamorosamente «occidentale» quella che sto utilizzando, le coordinate ed il linguaggio che utilizzano loro sono completamente diversi… comunque la differenza sostanziale tra le due associazioni è che Sos Esclaves è formalmente riconosciuta, mentre IRA Mauritania no. Inoltre la prima mette in atto iniziative per la liberazione degli schiavi, campagne, ma fa anche lobbying, è un gruppo di pressione, mentre la cosa interessante di IRA è che nasce nel 2009 e va avanti come movimento di lotta nonviolenta.

In che modo si sviluppa materialmente questa lotta?

IRA Mauritania concentra il grosso delle sue forze in azioni per la liberazione degli schiavi là dove ne viene a conoscenza. Si tratta sempre di iniziative molto delicate e molto problematiche, perché presuppongono l’individuazione di casi specifici di persone oggettivamente ridotte in condizioni di schiavitù, nelle diverse forme in cui questa pratica si sviluppa. Si tenta poi di entrare fisicamente nelle proprietà e nei territori per provare a liberare gli schiavi, trarli in salvo, e provare a denunciare il padrone schiavista ed eventualmente condurlo davanti alla giustizia. Questo con tutti i problemi e le contraddizioni che ciò determina: la giustizia formale è riluttante a processare questi casi. I padroni schiavisti, nelle file dei quali si annidano molto spesso anche autorità pubbliche, figure istituzionali e della cosiddetta «classe dirigente allargata». Altra attività importante sono le campagne di sensibilizzazione, realizzate con una metodologia nonviolenta. Questa metodologia è basata su azioni di grande impatto che mirano a «detabuizzare», a mostrare i tabù che le autorità politiche e soprattutto religiose, sfruttando le tradizioni locali, alimentano per giustificare e legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la pratica schiavista. L’anno scorso ci fu il caso clamoroso dell’incenerimento in piazza, da parte di Biram Dah Abeid e altri militanti, dei libri dei codici di diritto musulmano malikita. Ci fu un bailame gigantesco, vari attivisti vennero imprigionati dopo una violenta irruzione della polizia nel quartiere dove viveva Biram, che per questo ha subìto 4 mesi di detenzione, un processo al momento fermato ma che non si è ancora concluso. Ora lui vive in una sorta di libertà monitorata, provvisoria, concessagli. Una situazione molto grave e difficile, con un livello di esposizione personale suo e degli attivisti dell’IRA molto elevato. Si trovano nell’occhio del ciclone.

Un’azione che tocca quindi anche l’ambito simbolico e dell’immaginario.

Assolutamente sì, l’azione a livello simbolico e soprattutto religioso è molto importante. La Mauritania è un Paese in cui non l’islam, ma una tradizione particolare e ancestrale associata all’islam, si realizza in un’azione di predicazione islamica molto potente. Gli attivisti arrestati per l’iniziativa del rogo dei libri di cui parlavo hanno come primo reato per cui vengono incriminati la profanazione di libri sacri, quando non si tratta assolutamente di libri sacri e questo lo sanno benissimo i predicatori. È un contesto completamente ideologizzato quello che si è creato a favore della schiavitù, la presa ideologica è molto forte e le credenze sono molto difficili da scrostare. Per questo IRA insiste molto sui tabù, sulle persecuzioni, e i suoi militanti rivendicano il loro essere musulmani, e da musulmani portano avanti questa lotta per la giustizia. Inoltre, quando noi italiani siamo andati lì ci siamo scontrati con la realtà, al di là della schiavitù, di alcuni villaggi depauperati in condizioni drammatiche. La Mauritania è uno degli Stati più poveri del mondo, con uno dei più bassi indici di sviluppo umano. Quando queste contraddizioni materiali si intrecciano con un contesto pesante a livello simbolico, la situazione diventa davvero complicata. A maggior ragione in quella che inoltre è ufficialmente una repubblica islamica.

L’ufficio per l’Italia invece?

Biram Dah Abeid è venuto in due occasioni a Napoli, soprattutto su impulso dell’OssIn, Osservatorio Internazionale per i Diritti, che fa un importante lavoro di sostegno, documentazione e monitoraggio delle grandi violazioni dei diritti e delle libertà personali. Entrando in contatto con Biram, sentendo la sua storia, approfondendo il legame personale e anche politico con lui è emersa la proposta di costituire un bureau italiano dell’IRA. IRA Mauritania ha alcuni uffici nazionali in diversi Paesi occidentali ed europei. I più forti nella rete internazionale sono in Canada, negli Usa, in Francia, Belgio e Germania. C’è anche una piccola rappresentanza nei Paesi scandinavi. L’esigenza è stata quella di offrire non semplicemente un sostegno di carattere solidaristico, ma di creare un vero e proprio ufficio, nella forma dell’associazione di promozione sociale nata nel novembre 2011, che lavori a stretto contatto con IRA, appoggiando le sue campagne e mobilitazioni con una forte sinergia politica. Sosteniamo la loro causa concretamente, praticamente. Molto spesso, ad esempio, ci sono richieste di informazioni, di documentazione, o sostegno materiale per determinati casi. Lavoriamo poi molto per l’attivazione dell’opinione pubblica internazionale, e in particolare europea, anche in rete con gli altri uffici nazionali. C’è infine il lavoro di organizzazione, preparazione e realizzazione delle missioni giù in Mauritania, con una cadenza che è annuale per registrare l’evoluzione, per raccogliere sempre più documentazione che serve poi per l’azione di sensibilizzazione qua in Italia, che va avanti in alcune scuole, in ambiti come il Festival del Cinema dei Diritti Umani. L’anno scorso abbiamo realizzato una missione di monitoraggio e di denuncia in Mauritania (sintetizzata nel documentario Tra la Coda della Vacca e la Terra proiettato al VI Festival del Cinema dei Diritti Umani, ndr), nell’ottobre 2013 ne faremo un’altra.

Cosa fate in queste vostre campagne in Mauritania?

Lì abbiamo partecipato al II Congresso dell’IRA a Nouakchott e abbiamo incontrato in alcuni villaggi schiavi ed ex schiavi, altre associazioni. Abbiamo realizzato un’azione di denuncia e di monitoraggio, ma anche di individuazione di fatti concreti (fact-finding), raccolta di testimonianze, di racconti. Il tutto per capire come si sviluppa la schiavitù in un contesto che formalmente l’ha abrogata, ma in cui però concretamente opera tutta la dinamica politica e post-politica legata alla schiavitù. L’idea è poi quella di far conoscere una cosa di cui non si sa nulla da noi. Si sa poco in generale della Mauritania: la vecchia Africa Occidentale francese non è un contesto d’interesse per la diplomazia e per le relazioni internazionali dell’Italia, e quindi questa realtà è letteralmente nel cono d’ombra della pubblica attenzione. Tuttavia essa rimane uno dei pochi contesti al mondo dove, formalmente abolita, la schiavitù resiste. E la più grave forma di violazione della libertà personale non può essere qualcosa che rimane così in silenzio, sotto traccia. Ci muove quindi anche questa ispirazione «etica», che adesso sempra un parolone, sembra retorica, ma in effetti come si fa a tacere nel momento in cui tu individui una vicenda così importante e così grave? E soprattutto nel momento in cui una così grave violazione si consuma alle porte di casa. A maggior ragione in un mondo globalizzato, la Mauritania non è l’altro capo del mondo o un ufo, è qui. Ci sembra doveroso che un’opinione pubblica democratica si attivi su questo.

Esiste una «diaspora» mauritana in Europa? Come è schierata sul tema schiavitù e che rapporti avete con essa?

In linea generale gli uffici nazionali IRA in Europa sono tanto più forti quanto più significativa è la presenza di mauritani, come in Germania e soprattutto in Francia, a Parigi e Marsiglia. In Italia la diaspora mauritana conta meno di un centinaio di persone, siamo nell’ordine di grandezza delle decine: non esiste a livello di grandi numeri. Anche per il lavoro di interfaccia con la comunità mauritana in Europa siamo perciò in rete con gli altri uffici europei. Altra questione è quella dell’orientamento della diaspora, che ovviamente è composito: si va dai filogovernativi agli attivisti anti-schiavitù. Anche lì però può diventare un ginepraio, data anche la varietà nella composizione etnica. Ci sono dei conflitti interni alla comunità tra le varie posizioni, ma non ho notizia di scontri. Bisognerebbe fare un lavoro di documentazione accurato dentro le diaspore e nei singoli Paesi per capire l’articolazione politica, su cui incide molto anche quella etnica. Ci sono i «mauri bianchi», come vengono chiamati, le discendenze arabo-berbere e gli harratin o «nero-africani», una vera galassia tra wolof, soninké e altri. Tra questi però non è possibile fare una distinzione netta dicendo ad esempio che gli arabo-berberi sono filogovernativi e gli altri antigovernativi. Tra l’altro esistono anche arabo-berberi che sostengono la lotta dell’IRA, così come harratin che non la sostengono. La Mauritania è un Paese molto complesso, è un mosaico etnico nonostante sia demograficamente piccolo, con meno di 4 milioni di abitanti. Un Paese che ha vissuto anche una guerra etnica, tra mauritani e senegalesitra gli anni ’80 e ’90. Questo ha ulteriormente fatto deteriorare i rapporti di forza interni ed esterni tra le comunità.

Mi descrivi in breve i complessi fronti di conflitto nel Paese?

In Mauritania le polarizzazioni sono varie e complesse. Le contrapposizioni esistono per esempio tra singoli comparti di determinate etnie, ma anche ad esempio tra le poche città e i villaggi, oppure tra la fascia costiera e l’interno, le parti desertiche. Nella nostra prossima missione cercheremo anche di attuare una documentazione più sofisticata entrando in villaggi peul, e quindi cominceremo anche a toccare le dinamiche etniche. I conflitti etnici che ha vissuto la Mauritania hanno una clamorosa specificità, lasciando in eredità il gravoso problema del passivo umanitario, cioè il tema del rientro dei profughi, degli sfollati e dei rifugiati a seguito di processi come la pulizia etnica. Un problema che il governo dice di aver riassorbito, quando invece questo non è vero. Molti sono rientrati in condizioni di fortuna e in molti casi drammatiche, e le cifre ufficiali non corrispondono a quanto ti raccontano lì. Il governo ha portato avanti una grossa azione di propaganda sul recupero di questopassivo, anche agli occhi della comunità internazionale. Le guerre combattute dalla Mauritania post-indipendenza, che hanno ancora conseguenze nel Paese, sono due. Una legata alla questione saharawi, al momento della decolonizzazione; l’altra a sfondo etnico, ma con la strumentalizzazione di quest’ultimo da parte del governo per giustificare la pulizia etnica contro i nero-africani, chiamati «senegalesi». Due guerre politiche e costituenti in un certo senso. A seguito della prima, ad esempio, il primo governo nazionale fu rovesciato militarmente, e si inaugurò una lunga serie di colpi di Stato. Anche l’attuale presidente è lì grazie ad un golpe, poi legittimato elettoralmente. Il Paese vive quindi anche un grande problema politico-democratico. Se si guarda alla libertà di stampa, inoltre, i giornali sono sotto controllo, soprattutto quelli d’opposizione. Per riassumere, la dinamica mauritana attuale ha tre matrici attorno a cui ruota la sua problematicità: la povertà, la schavitù ed il conflitto etnico-politico. Tutti e tre fenomeni drammatici che si sviluppano contemporaneamente e tutti e tre a livelli estremi, in tutta la loro gravità. In un Paese enorme geograficamente e poco popolato.

Mi sai dare qualche dato sulle persone che l’IRA è riuscita a liberare, sulle azioni portate positivamente a termine in questo contesto così difficile?

Ci sono alcune decine di casi di iniziative di liberazione tentate e portate a buon fine. In casa con Biram vivono alcuni ex schiavi liberati dall’IRA. La loro situazione chiaramente è molto delicata, perché intanto continuano a subire lo stigma dell’essere stati schiavi, con tutte le difficoltà di reinserimento sociale che questo può comportare. Questo vale in particolar modo per le donne ex schiave, per le quali in un contesto molto tradizionale è difficile riprendere adeguatamente  una vita civile. Inoltre c’è il fatto che le autorità, non riconoscendo formalmente la schiavitù, non prevedono alcun percorso di reinserimento sociale. Per loro non esistono gli schiavi, ma lavoratori alle dipendenze di un padrone. Questo porta la situazione ad un livello di problematicità gigantesco.

Quali sono, secondo te e da quanto hai visto lì e saputo dagli attivisti locali, le prospettive per la dimenticata Mauritania rispetto alla risoluzione dei suoi problemi, la schiavitù in primis?

Innanzitutto l’attenzione dedicata alla Mauritania, soprattutto da parte dell’Italia, è molto inferiore a quella che meriterebbe. Ma il ruolo della Mauritania diventa tendenzialmente sempre più strategico. Il conflitto in Mali fa capire quanto quello scenario diventa significativo anche per l’Europa. La Mauritania concorre con sue truppe alla forza multinazionale dell’ECOWAS istituita dal Consiglio di Sicurezza Onu. La Mauritania sta ammassando ai suoi confini dei soldati per creare una sorta di cordone di sicurezza rispetto alla guerra in Mali. Persino al di fuori della dinamica umanitaria e internazionalistica, anche per mere questioni geopolitiche quell’area è importante e bisogna prestarvi attenzione, è irrinunciabile. In questo senso, sarebbe necessaria un minimo di apeertura democratica quantomeno per far sì che si attiri l’attenzione delle potenze sul Paese. In generale il grande lavoro che si sta facendo sul terreno da parte delle varie associazioni lo vedo molto promettente. Quello su cui si sta puntando molto è la creazione di un’opinione pubblica, di una società civile, sempre usando i nostri termini occidentali in un contesto invece più complesso. Le forze nonviolente in questo momento sono perseguitate e si cerca di soffocarle, ma la lotta per l’alfabettizazione della popolazione, per creare sempre più consapevolezza demistificando i tabù, e conseguentemente la creazione di una mobilitazione contro il potere costituito possono aprire uno scenario di evoluzione molto interessante.