**ferocia e tecnologia**

Le oscene immagini dell’epilogo della guerra in Libia – che sono rimbalzate fino alla nausea nel
circo mediatico, banalizzandone lo scempio, mentre sono oscurate regolarmente le “ordinarie”
immagini di tutte le guerre, che potrebbero far riflettere sull’oscenità della guerra – fanno scrivere
ad Adriano Sofri, su “la Repubblica” del 22 ottobre (“Kalashnikov e telefonini lo scempio del
branco”), che “l’uomo è antiquato, o è pronto a ridiventarlo” anzi, continua più avanti, “gli umani
sono ancora feroci e fanatici come nell’Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di
allora, ma hanno i telefonini”. La guerra e la sua persistente legittimazione politica e culturale
tengono l’umanità ancorata al peggio di sè. Abbiamo fatto un salto tecnologico, ma nessun salto
di civiltà; al contrario l’applicazione della tecnologia alla guerra ha fatto compiere all’umanità un
balzo all’indietro. La guerra risponde alla logica del fine da raggingere che giustifica l’impiego di
qualunque mezzo. Da quando il mezzo è stato potenziato enormemente dagli sviluppi tecnologici, è
esplosa la capacità distruttiva e ridimensionato lo spazio di umanità.

**l’imprinting al Novecento**

La svolta tecnologica nella guerra è avvenuta in quella che ha aperto il Novecento, dandogli
l’imprinting: la “Grande guerra”, chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma
sopratutto per la capacità distruttiva su larga scala che è stata messa in campo dagli eserciti. Quella
guerra provocò la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici,
finalizzati al terrore di massa. Le nuove fabbriche fordiste, chimiche, meccaniche, areonautiche e
navali, furono rapidamente convertite al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da
combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. La società
e l’economia intera vennero coinvolte nello sforzo bellico e la guerra diventò, per la prima volta,
di massa e totale. Un salto di qualità distruttiva definitivo, con 16 milioni di morti complessivi
in quattro anni, che da allora in poi sarebbe stato sempre più amplificato, in un’escalation senza
fine di armamenti, morte e distruzione. Fino ai campi di sterminio, fino ad Hiroshima e Nagasaki,
e poi all’equilibrio del terrore, al napalm, all’uranio impoverito, alle armi battereologiche, ai
cacciabombardieri nucleari, ai droni telecomandati…In un vortice di violenza presente sia quando
le armi iper-tecnologiche vengono usate ai quattro angoli del pianeta, sia quando si accumulano e
praparano le guerre, sottraendo ingenti risorse alle spese sociali e colonizzando la cultura profonda
che non pre/vede e rende possibili le alternative.

**uomini nel fango**

E l’umanità? Mentre si fanno strada le armi di distruzione di massa, nella “Grande guerra”
l’umanità è rintanata nelle trincee contrapposte, tra topi, cadaveri, neve e fango, dove sopravvivono
e muoiono i giovani e giovanissimi coscritti (dello “stesso medesimo umore, ma la divisa di un
altro colore”, cantava De Andrè), agli ordini di ufficiali spesso esaltati. “Uomini contro”, li definì
il celebre film di Francesco Rosi, che, qualche volta, si riconobbero nella loro rispettiva umanità
e decisero di affermarla, disobbedendo agli ordini, rifiutando di sparare. Lo racconta, tra gli altri,
Emilio Lussu in “Un anno sull’altipiano” (libro da cui fu tratto il film di Rosi):
“Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, cosi viva ne era stata la
resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi,
rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il
nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come
noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffe’,
proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. (…)Avevo
di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare.
Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il
grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia
volonta’, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo!”

**militarizzazione di una generazione**

Ma queste esitazioni dove emergeva l’umanità vennero severamente punite. Le renitenze e le
diserzioni per non andare a morire nelle trincee d’Europa, gli ammutinamenti e le insubordinazioni
di massa dei soldati sfiniti, le automutilazioni per trovare un temporaneo riparo nelle retrovie,
le tregue spontanee dal basso – come la “piccola pace nella Grande guerra” che fu realizzata
naturalmente dai soldati lungo tutto il fronte occidentale, per alcuni giorni, intorno al Natale del
1914, con l’intonazione di canti natalizi di pace nelle diverse lingue e scambi di poveri doni,
incontrandosi nella terra di nessuno tra le due trincee (cfr Michael Jurgs “La piccola pace nella
Grande guerra. Fronte occidentale senza armi 1914: un Natale senza armi”) – furono disubbidienze
e obiezioni popolari alla logica della guerra. Per questo, orrore nell’orrore, nella “Grande guerra” si
applicò per la prima volta su amplissima scala anche la decimazione, all’interno dei rispettivi fronti,
di coloro che esitavano a dimenticare la propria umanità per diventare cieche e sorde macchine
di morte. Intanto, la propaganda, condotta per la prima volta in maniera massificata sul “fronte
interno” di ciascuno Stato, giustificava tutto ciò per i superiori interessi nazionalistici.
In Europa una generazione subì un processo di militarizzazione forzata e ideologica. La
conseguenza principale saranno i fascismi e il nazismo che condurranno il mondo ad una nuova, ed
ancora più spaventosa, catastrofe mondiale.

**cambiare paradigma culturale**

Oggi, nonostante il passaggio di millennio, siamo ancora pienamente dentro quel Novecento,
inaugurato e connotato definitivamente dalla Grande guerra; dentro al paradigma del fine che
giustifica mezzi, sempre più scientificamente distruttivi. Nonostante la fine di due guerrre mondiali,
la conclusione della “Guerra fredda”, il crollo dei regimi totalitari, nonostante tutto ciò, le spese
militari – per l’acquisto, il mantenimento e l’uso di ipertecnologie di morte – sono avviluppate in
una escalation continua, su scala planetaria e nazionale, che non ha eguali in nessuna epoca storica.
Il riarmo è in continua ascesa, tanto sul piano specificamente bellico quanto sui piani politico e
culturale. Non a caso il nostro Paese è impegnato, consecutivamente da vent’anni, in guerre su molti
fronti internazionali, chiamate “missioni di pace” nella “neolingua” orwelliana comunemente usata
per aggirare la Costituzione, nella quale i padri costituenti avevano usato coscientemente la forza
del verbo “ripudiare” proprio e solo in riferimento all’oscenità della guerra, in quanto “mezzo” per la
risoluzione dei conflitti.
Siamo talmente dentro al tragico Novecento che – piuttosto che puntare sul disarmo militare e
sulla messa a punto e sperimentazione di “mezzi” alternativi alla guerra per la “risoluzione delle
controversie internazionali”, proiettandoci così in un’altro paradigma culturale e politico, quello
del fine che si realizza già nel mezzo che si usa, come indicato dalla Costituzione – si continua
a “festeggiare” il 4 novembre, la fine della “Grande guerra” come “Festa della Forze Armate”, ossia
si festeggia proprio il “mezzo” che ci lega irrimediabilmente alla guerra.

**un 4 novembre per il disarmo**

Il ricordo e il lutto per le vittime delle guerre meritano un giorno di memoria e di raccoglimento,
non di festa. Un modo affinchè il loro sacrificio sia di vero monito alle nuove generazioni è
dedicare quel giorno alla riflessione sulla tragedia di tutte le guerre, all’impegno per il disarmo e
alla promozione delle alternative possibili. Fra qualche anno saranno cento gli anni che ci separano
dall’avvio della “Grande guerra”: se nel frattempo saremo riusciti a trasformare il 4 novembre in
una giornata dedicata alla pace ed al disarmo, piuttosto che all’esercito, sarebbe un piccolo, ma
importante, segnale che il secolo delle guerre sta finalmente passando. E che stiamo cominciando a
costruire, almeno in Italia, un cambio di paradigma culturale per un salto di civiltà e di umanità.

*Pasquale Pugliese*
segreteria nazionale del
Movimento Nonviolento