C’è anche un’altra Italia, forte e silenziosa, che non ha paura del diverso e dello straniero, ed è pronta a mettersi in gioco attivamente nell’accoglienza di chi è in difficoltà, perché scappato da guerre, dittature, fame e povertà. Persone e intere famiglie che, in barba alle bufale sulla cosiddetta “invasione” e sugli hotel a quattro stelle, non esitano a mettere a disposizione anche la propria casa, aderendo ai progetti di accoglienza diffusa messi in campo da associazioni ed enti locali. Lo scopo: accompagnare i migranti e richiedenti asilo verso un inserimento più armonico in quella società in cui si sono trovati, volenti o nolenti, a dover ricostruire da zero la propria vita. “Si tratta di un modello che parte dallo spirito di solidarietà delle famiglie, dalla comunità che accoglie – spiega Laura Liberati di Programma Integra, durante un incontro organizzato a Roma all’inizio dell’estate proprio per fare il punto su questo sistema che in Italia è ancora in fase sperimentale – Dopotutto, l’immigrazione non è un fenomeno: c’è, e ci sarà sempre. Per questo il lavoro essenziale da fare non è costruire muri ma capire come accogliere in modo corretto”.

Dai pionieri della Caritas con il progetto “Rifugiato a casa mia”, al “Rifugio diffuso” di Torino, che dal 2008 ha consentito ad oltre 140 titolari di protezione internazionale di vivere un’esperienza di accoglienza in famiglia; dal progetto di Ciac Onlus a Parma, fino ai volontari di “Refugees Welcome Italia”, sono tante le esperienze ormai avviate in Italia, e molte altre si preparano a partire. “L’idea è nata quando ci siamo resi conto che i tempi previsti dallo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, non erano sufficienti per garantire l’integrazione – afferma Nicoletta Allegri, psicologa di Ciac Onlus – così abbiamo pensato che la famiglia potesse essere un trampolino: per migliorare la lingua, la conoscenza e l’interazione con le altre persone, la comprensione della società in cui ci si trova immersi”. L’accoglienza in famiglia s’inserisce così come tassello nell’ultimo tratto di strada del rifugiato verso la completa autonomia. Non a caso, i beneficiari di questi progetti devono aver già conseguito diversi step, dal titolo di protezione, a una conoscenza dell’italiano abbastanza avviata. Alcuni sono detentori di una borsa lavoro, o stanno seguendo dei corsi e trovano un impiego anche grazie alla rete di relazioni che l’ospitalità in famiglia contribuisce a creare.

“Grazie al contatto con le famiglie, per questi ragazzi vengono fuori esperienze inedite – ha commentato Antonella Colombo, Incaricata del Servizio Politiche per l’immigrazione del comune di Milano, che ha ribadito la volontà dei comuni italiani di fare rete per condividere questo tipo di esperienze – si scoprono sul campo le differenze culturali ma anche i punti comuni, con la conseguente riattivazione di sentimenti come la nostalgia, il desiderio di riallacciare i contatti con la propria famiglia e perfino di formarsene una propria”. Certo non è detto che tutte le distanze vengano colmate. “Tra le difficoltà maggiori ci sono sempre le aspettative, soprattutto delle famiglie ospitanti – interviene ancora Nicoletta Allegri – Ogni storia è una storia a sé, ogni rifugiato ha un suo modo di stare in famiglia”.  Anche per questo è importante seguire le famiglie e i rifugiati soprattutto nella fase preliminare, che non sempre si risolve alla fine con la convivenza.

Quando però funziona, l’esperienza può rivelarsi straordinaria, per ospitati e ospitanti. Alberto e Silvia, ad esempio, che hanno aderito all’innovativa esperienza di Refugees Welcome Italia, non si stancano di raccontare quanto l’amicizia con Reza, il giovane afghano che hanno ospitato, li abbia arricchiti: “Lo abbiamo conosciuto grazie ai volontari che ce lo hanno presentato – spiegano – Entro dieci giorni sarebbe dovuto uscire dal centro di accoglienza, ritrovandosi per strada”. Pian piano, superate le timidezze iniziali, sono cominciati i primi sorrisi, i gesti quotidiani sono diventati più naturali, fino a che Reza non è diventato un vero e proprio membro della famiglia. Inutile dire che anche lui, come tantissimi suoi conterranei, viene da una storia di guerra e di dolore: di etnia hazara, a sei anni è scappato dall’Afghanistan con la mamma e il fratello maggiore dopo che i Talebani gli avevano ucciso il padre. Rifugiatosi in Iran, a 18 anni ha deciso di partire per l’Europa. In realtà la sua meta era la Svezia, ma per il regolamento di Dublino che impone al migrante di poter fare la richiesta di asilo nel paese in cui è stato identificato, alla fine si è dovuto fermare qui. Ed è stato fortunato.

La loro è stata la prima accoppiata partita con Refugees Welcome, la cui idea geniale è stata presa in prestito dalla Germania. Funziona come una sorta di Airbnb per i migranti, con la differenza che non ci sono profitti di mezzo: in pratica, chi ha desiderio di ospitare in casa un rifugiato può iscriversi al sito internet dell’iniziativa, dopodiché sarà compito dei volontari dell’associazione mettere in contatto chi offre ospitalità con i richiedenti asilo e i rifugiati presenti nelle strutture del territorio. Il periodo di accoglienza, va dai tre ai sei mesi, prorogabili in caso di volontà o particolari necessità, con un costante monitoraggio da parte dei volontari dell’associazione per tutta la durata dell’esperienza. Tredici le convivenze attivate in tutta Italia a 6 mesi dall’avvio di questo grande progetto, che prevede una metodologia basata sull’utilizzo di gruppi territoriali multidisciplinari e corsi di formazione per le famiglie.

Altro esperimento innovativo, e ancora più delicato, è quello partito a Roma nel gennaio 2015 con il progetto Homefull. L’obiettivo: attivare un modello di cohousing sperimentale fra giovani migranti e anziani autosufficienti. “Lo scopo era quello di coniugare i bisogni e valorizzare le potenzialità degli anziani in situazioni di solitudine e fragilità e dei giovani stranieri in uscita dai percorsi di protezione” spiega Carla Malatesta, di Meta Onlus, partner nel progetto di Programma Integra. Come spesso accade in questi casi, è stata importantissima già solo la fase di informazione, sensibilizzazione e incontri per arrivare alla scelta delle coppie. “L’idea era di superare i preconcetti e le barriere psicologiche nei confronti del diverso – continua Malatesta – Tra incontri di dialogo, visite guidate tutti insieme dentro Roma, pranzi interetnici dove ciascuno ha portato il suo piatto preferito, alla fine il percorso ha davvero abbattuto le barriere”. Causa dei tempi stretti del progetto, le coppie selezionate sono state solo due, ma le associazioni sono sicure che anche questo possa costituire un altro passo fondamentale per ripensare a un modo diverso di accogliere nel nostro paese.

 

Qui l’articolo del nostro partner