di Roberto Tecchio www.counselingmantova.it

Roberto Tecchio inizia con questo articolo la sua collaborazione con Pressenza nei temi su cui è, da molti anni, uno dei principali esperti italiani. La redazione lo rigrazia e gli dà il benvenuto. 

Pensiamo ad un gruppo qualsiasi che si riunisce per discutere qualcosa: ebbene, il nostro gruppo dovrà fare i conti non solo con le proposte che riguardano l’oggetto specifico della discussione (per esempio come investire i fondi raccolti, se accettare o meno l’invito ad una manifestazione, quale arredo scegliere per la nuova sede, ecc), ma anche con le proposte che riguardano le modalità della discussione stessa (per esempio i turni e i tempi degli interventi, cosa succede se qualcuno si dilunga o va fuori tema, il disporsi seduti in cerchio o in altri modi, prendere appunti alla lavagna, dividersi in piccoli gruppi di approfondimento tematico, ecc), nonché come vengono prese e formalizzate le decisioni (per esempio il ricorso al voto e con quali maggioranze). Ora, il riconoscimento della sostanziale differenza e del complesso rapporto tra il piano dei contenuti e quello delle forme della comunicazione, porta al concetto e alla pratica della “facilitazione della comunicazione” (d’ora in avanti f.). Infatti, se sul piano dei contenuti ogni gruppo ha il suo specifico ambito di competenza che ne caratterizza l’identità e lo differenzia dagli altri (associazioni che lavorano su temi ambientali, altre che promuovono il commercio equo, o il software libero, ecc), sul piano delle forme della comunicazione tutti i gruppi condividono gli stessi problemi: in che modo discutiamo ciò di cui discutiamo? In che modo decidiamo ciò che decidiamo? Ecco, la facilitazione della comunicazione (o dei gruppi, o dei processi decisionali partecipativi) riguarda precisamente le metodologie impiegate per discutere e decidere.

Come si vede, la f. risulta in pratica sempre presente nella dinamica di un incontro – per cui non ha senso domandarsi se sia o meno il caso di “facilitare” le proprie riunioni, bensì accordarsi se farlo in modo esplicito oppure lasciarlo implicito. Certamente si può contestare il ricorso a delle facilitatrici (d’ora in avanti, salvo precisazioni, userò il femminile generico con lo stesso significato inclusivo che la lingua italiana attribuisce al maschile, per esempio in questo caso con “facilitatrici” intendo anche i facilitatori), cioè figure interne o esterne al gruppo che sulla base di accordi espliciti svolgono un determinato ruolo; tuttavia non si potrà mai impedire l’esercizio di funzioni legate al metodo. Per esempio, cosa succede quando qualcuno durante la riunione tiene a lungo la parola, magari ripetendosi o andando fuori tema? Ebbene, basta che una partecipante intervenga per richiamare l’attenzione al tempo che passa, o per ricondurre il discorso nell’ambito prescelto, quindi con interventi sul piano del metodo e non dei contenuti, per configurare un’azione tipica della f.. Bene, ma chi ha dato a quella partecipante lo speciale potere d’influenzare (limitare, contenere, ricondurre) l’intervento di un altro? Chi e come ha stabilito la regola per cui “chiunque può intervenire per regolare l’intervento di altri”, regola in base alla quale egli sta appunto intervenendo? E in mancanza di una simile regola frutto di un accordo esplicito, quali conseguenze avrà quell’intervento sulla dinamica della discussione?

D’altro canto, anche qualora si lasciasse ad un partecipante la piena libertà di dilungarsi e magari andare pure fuori tema, nella fiduciosa attesa che sappia correggersi da solo, verrebbe a configurarsi un’azione tipica della f.: in questo caso sarebbe il silenzio del gruppo l’azione di ordine metodologico, che implicitamente sembra sostenere la regola per cui “qui chi prende la parola può parlare quanto ritiene giusto perché noi ci fidiamo della sua capacità di autoregolarsi”. Ma chi e come ha stabilito una simile regola? Chiunque abbia esperienza di gruppi conosce bene gli effetti deleteri di quel silenzio quando quella regola non è stata mai concordata.

Non darsi delle regole non vuol dire non seguire delle regole, bensì seguire regole di cui non si è consapevoli. Ed è più libero chi segue regole che conosce, o chi, credendosi libero, segue inconsapevolmente delle regole che non conosce? Come dimostra la pragmatica della comunicazione umana, questa faccenda è di importanza cruciale, tanto per il benessere interno al gruppo quanto per l’efficacia della sua azione e missione. Ricordiamolo: la f. riguarda i modi e le forme attraverso cui si esercita la gestione del potere nel gruppo. È su questo piano che si gioca la democrazia – le regole del gioco. Ecco perché ci sembra così importante promuovere la cultura della facilitazione della comunicazione nei gruppi.

Sull’argomento segnalo la recentissima traduzione del manuale di Bea Briggs, dell’International Institute for Facilitation and Change, Guida pratica a Facilitazione e Metodo del Consenso, a cura  di Lucilla Borio:  http://issuu.com/terranuovaedizioni/docs/sfoglioguidafacilitazioneconsenso

Inoltre segnalo il nuovo sito Mappe di Facilitazione, un servizio gratuito che nasce per raccogliere documenti, esperienze, contatti e informazioni allo scopo di favorire la diffusione di una cultura della facilitazione in Italia:  www.facilitazione.net