Baanum Nafi (Nafi’s father) del regista senegalese Mamadou Dia ha meritatamente vinto il Pardo d’oro cineasti del presente e il premio Swatch per la miglior opera prima. Un film da non perdere quando e se arriverà in Italia, da ricercare altrimenti nel web.

Due fratelli litigano a proposito del matrimonio dei loro figli; l’oggetto del contendere è la diversa visione dell’Islam che separa i due uomini, uno Imam e guida spirituale del suo villaggio, rappresentante di un Islam legato alle tradizioni, ma dialogante e refrattario al ricorso alla forza per imporre i supposti dettati religiosi, l’altro legato ad un gruppo di integralisti che stanno organizzando la loro presenza nella regione. Il film illustra in modo preciso e dettagliato i vari passi e le differenti fasi attraverso le quali si realizza la penetrazione dell’integralismo islamico in una regione nella quale era fino a quel momento assente.

Un film che non solo coinvolge per l’avvincente trama della storia narrata, ma che può svolgere certamente anche un’interessante operazione didattica, anche grazie (o malgrado) alcuni passaggi in parte semplificati a scopo narrativo contenuti nel film.

Baghdad in my shadow, presentato fuori concorso, opera del regista Samir, nato a Baghdad ma residente in Svizzera dagli anni Sessanta, è forse uno dei più interessanti film che ho potuto vedere a Locarno.

La scena è un bar iracheno a Londra nel quale s’incontrano uno scrittore, una donna fuggita dall’Iraq e un informatico che nasconde la sua omosessualità. In questo contesto irrompe il nipote dello scrittore trasformatosi in seguace dell’Islam radicale. La storia si dipana all’interno della diaspora irachena a Londra, ne analizza le diverse modalità di vivere l’esilio, l’impossibilità di cancellare la propria storia che riemerge sempre in modo inaspettato. Nessuno può liberarsi del suo passato, ma può provare a venire a patti con la propria storia. I conflitti che si erano manifestati in patria riemergono nella complessa comunità irachena in esilio; differenti e anche contrapposte sono le ragioni che, emergendo una alla volta durante il racconto, hanno spinto i protagonisti a raggiungere Londra.

Sullo sfondo le strade, l’atmosfera, i ricordi e la storia della capitale irachena, mentre a Londra i servizi segreti non mancano di manifestare il loro interesse per quelle storie umane che portano con sé memorie e segreti.

Fi al thawra (During revolution) della regista siriana Maya Khoury ha ricevuto una menzione speciale come opera prima.

Racconta dal punto di vista dell’opposizione laica la guerra in Siria tra il 2011 e il 2017. Il racconto, un po’ sconclusionato nella ricostruzione dei luoghi e dei tempi, fa emergere in modo netto la debolezza dell’opposizione laica a Bashar Hafiz al-Asad, la difficoltà di un coordinamento stabile, l’incompetenza del governo in esilio e la sua difficoltà a costruire un rapporto con i giovani che organizzano le manifestazioni e poi partecipano alla guerra: storie e culture differenti unite nell’opposizione ad Assad, ma con linguaggi e aspirazioni spesso non coincidenti.

Poche inquadrature e poche battute, ma sufficienti per spiegare come gli integralisti si inseriscono nelle mobilitazioni contendendo agli altri gruppi la leadership. Silenzio completo sui ruoli, i finanziamenti e le ingerenze internazionali che non poco spazio hanno avuto e hanno tutt’ora nel conflitto siriano.

Terminal sud di Ameur –Zaimeche Rabah, regista nato in Algeria nel 1966 e giunto in Francia nel 1968, è un film inserito nel concorso internazionale.

Racconta di un medico che, nel mezzo di un conflitto, cerca di difendere la propria professionalità e il giuramento d’Ippocrate, rivendicando in nome di questo una neutralità che diventa sempre più difficile da gestire. Rapito dai ribelli per curare un loro capo, viene poi sospettato di tradimento dai governativi.

La scelta di non collocare la vicenda in alcun paese, in un non-paese, e quindi al di fuori di un contesto storico preciso, pur essendo evidente la collocazione nell’area mediterranea, avrebbe dovuto costruire, secondo i critici che hanno presentato il film a Locarno “un intervallo insieme conflittuale e liberato dalle ossessioni identitarie, uno spazio comune, quello della lotta di classe consentendo così l’emergere di autentici soggetti politici”.  Francamente di tutto questo non ho colto alcuna traccia nel film.

Sui temi trattati la realtà offre purtroppo un’infinità di storie reali che, raccontate, avrebbero potuto avere ben altro significato e impatto.

Camille, del regista francese Boris Lojkine, è tratto dalla storia vera di una giovane fotografa, Camille Lepage, uccisa a 26 anni nel maggio del 2014 mentre documentava la guerra tra il governo e i ribelli Seleka nella Repubblica Centrafricana. Il film proiettato in Piazza Grande è già in arrivo in Italia.

Il racconto sembrerebbe sufficientemente veritiero, considerato che il regista ha avuto anche il supporto della famiglia della giornalista. In un’intervista rilasciata al sito web PetaPixel poco prima dell’agguato che le è stato fatale, Camille parlava di quelle storie drammatiche ignorate dai media mainstream: “Non posso accettare che certe tragedie vissute da alcune persone vengano tenute sotto silenzio perché nessuno può farci dei soldi. Così ho deciso di fare da sola, di portarle alla luce, non importa a che prezzo”.

Camille emerge come una donna coraggiosa e sprezzante del pericolo che agisce da sola, anche senza la copertura di una testata giornalistica, senza alcun rapporto con ONG. Si inserisce a pieno titolo, sempre come giornalista, in un gruppo guerrigliero che segue nelle spedizioni che non raramente si concludono con pratiche macabre e feroci.

Il film avrà successo e certamente molti di noi condividono il fatto che la presenza o l’assenza di interessi economici non possano giustificare in alcun modo il silenzio sulle tragedie e sulle guerre. Ma sappiamo anche bene che per documentare tutto ciò, come per qualunque altra iniziativa sociale, a maggior ragione in Africa e nelle zone di guerra, sono essenziali forme di cooperazione, la costruzione di reti, i rapporti con le associazioni presenti sul territorio, con le agenzie internazionali e nel caso specifico, con testate giornalistiche disposte a far girare le notizie, le foto in questo caso e a mettere a disposizione il minimo necessario per poter garantire una seppur minima sicurezza, che certamente non può escludere la tragedia.

Con il massimo rispetto per le scelte di Camille, credo che questa vicenda dovrebbe essere analizzata anche mettendone in evidenza alcuni risvolti critici senza lasciarsi andare alla celebrazione di eroismi. Il film racconta una storia; sarà lo spettatore a farsi poi un’idea.