La parola “bambino” è considerata nome comune di persona, ma, nella sua genericità, è assimilabile a un nome collettivo, gregge, mandria, truppa. La genericità, senza specificazione di contesto, in realtà nasconde un significato che rinvia a un ben preciso rapporto.

Diciamo “bambino” come adulti (altro nome generico) nel segnare la distanza che separa l’uomo (e qui fa al caso mantenere il maschile singolare) dotato di logos, parola e ragione, di autonomia come libero arbitrio, dall’infanzia, per sua natura in-fans, senza lingua appropriata, senza capacità di giudizio. Un rapporto di potere – segnalava Jacques Derrida – come quello che si instaura con un’altra classe di viventi da dominare, addestrare, addomesticare, uccidere: il vasto regno chiamato “animale”.

Il bambino per secoli è stato considerato – tagliando un po’ trasversalmente le diverse culture – una proprietà della famiglia. Un fattore di consumo delle risorse del nucleo famigliare, precocemente forza-lavoro, oggetto di un destino ereditario (il “nome” imposto alla nascita, nel “nome del Padre”). Non ancora “soggetto di diritti”, poteva esser ucciso, esposto, tormentato (a fini educativi, orto-pedagogici!). Da tenere a bada proprio per la sua vicinanza istintuale alla bestia. Il “perturbante” lo definiva Freud, per gli effetti di rispecchiamento con la lunga neotenia bisognosa, effetti che ancora segnano – spesso con dolore – la vita adulta.

Luisa Muraro, maestra e filosofa, nel suo lavoro sulla Lingua Materna, sul differire come categoria esistenziale e politica, ha coniato la locuzione “creatura piccola”. Un tentativo di piegare la lingua a dire una specificità, a marcare il fatto che la piccolezza non è incompletezza, non è attesa di un divenire finalmente formato, ma di un’età della vita con caratteristiche personalissime che, spesso, si sottraggono al rapporto di “allevamento”.

Le parole contano, si contano, entrano nel conteggio, nella misura del potere di chi le usa. Entrano nel consumo banalizzante, semplificandosi nei meccanismi delle nuove identità forgiate, sia dalla tecno-cultura, sia da un inquietante ritorno del vocabolario militare.

Tenendo di sfondo questa premessa, su cui si potrebbe riflettere molto più a lungo, cerco di capire cosa propone il Centro di Ginnastica Dinamica Militare (GDMI) portato alla nostra attenzione.

Prima di entrare nella sezione, nel “protocollo”, dedicato al bambino, leggo la presentazione, gli intenti, le proposte e i profili degli istruttori (anche qui, il maschile vale per un neutro marcato, in cui includere il femminile nella forma del mimetismo machista). Di nuovo parole. Una ginnastica militare (mi sfugge il “dinamismo”: forse serve a dire quanto occorra muoversi, sudare, soffrire, nell’allenamento?), praticata dal 1968.

Ci precisano sul sito che nessun collegamento lega il centro a una “ideologia politica”, ovviamente considerati, vocabolo e aggettivo, come nefasti (povero Gramsci che credeva che l’ideologia fosse un sistema di idee da elaborare “per” la formazione politica). Ma leggo il logo posto un po’ a latere “nessun dorma!”, e mi allerto. Lo stile definito militare, “sincronizzato” (? sic!) mi rimanda – come non dovrei fare visto il monito anti-ideologico – ai regimi totalitari, al nostro fascismo, al nazismo, al franchismo, per i quali la palestra, l’esercizio fisico, la “splendida forma” (sic!) erano un obbligo del buon cittadino, fin dall’infanzia.

La parata, del resto, è esibizione di forza, di obbediente sincronia, e di minaccia. Non è tutto, perché la manipolazione delle parole continua, non so se in modo consapevole o per impiccio incolto, bisticcio di definizioni: l’attività – nel giusto “sincronismo”, appunto, – è a “corpo libero”, libertà condizionata all’obiettivo di «superare se stessi», di «competere […] all’unisono», senza paura di esibire una «forza esplosiva».

E il «protocollo bambini»? Dai 7 ai 12 anni – forse a 13 si è considerati ginnasti-guerrieri adulti? – si possono svolgere le stesse attività proposte a tutti e tutte ma, si precisa, in modo adeguato alle fasi dell’età evolutiva. Il corpo piccolo anch’esso è libero, ancora nel paradosso dell’esposizione allo sguardo attento e militare dell’istruttore. Il maschile in questi siti è da mantenere, nessuno sforzo inclusivo per piegare la lingua al politicamente corretto. Infatti, le foto del gruppo di animatori-ginnasti mostrano sguardi diretti, magliette che rimarcano i gonfi bicipiti e – perché farselo mancare – seni femminili prosperosi. Donne e guerra, un tema su cui dovremmo tornare.

Nel corso delle innumerevoli riforme cha hanno devastato la scuola dei più piccoli, soprattutto quella dell’obbligo, elementare/primaria, la disciplina scolastica “ginnastica” si trasformò in “educazione motoria”. I corsi di laurea dell’ISEF (Istituto Superiore di Educazione Fisica) vennero cambiati in studi di Scienze Motorie.

Negli anni Novanta – ministri dell’allora Pubblica Istruzione, Sergio Mattarella (oggi, come dice lo storico Angelo d’Orsi, un guerrafondaio sotto copertura, in veste di Presidente della Repubblica) e successivamente Riccardo Misasi – vennero introdotti i moduli. Tre insegnanti divennero titolari su due classi (più altre versioni ibride, 27/30 ore di lezione), come alternativa al Tempo Pieno (due insegnanti su una classe, 40 ore di tempo scuola settimanale, per chi ne avesse perso memoria). A un docente veniva affidato un ambito in cui figurava la disciplina motoria.

Il CONI, d’intesa con il ministero formò, nel suo centro di Formia, gruppi di docenti di ogni ordine e grado e dirigenti perché facessero a loro volta da formatori e coordinatori ai colleghi e colleghe per i nuovi programmi di educazione motoria.

Ricordo, essendo stata selezionata come dirigente, che fu una buona esperienza, una settimana intelligentemente costruita perché si capisse la relazione profonda corpo-mente, perché si tenesse in contro la trasversalità, la trans-disciplinarietà che tale rapporto permetteva. Non ci chiamò mai nessuno a operare nelle scuole. Soldi – tanti – buttati.

Oggi vedo dal sito del GDMI che il CONI partecipa all’impresa. Non capisco se in qualità di consulente o di sponsor, forse entrambi. Del resto, far virare la ginnastica, lo sport in arti militari, è un passo facile, come ho detto. A tal proposito segnalo un libro di Alessandro Dal LagoDescrizione di una battaglia. I rituali del calcio (2001), un’accurata disamina sociologica dello sport più popolare nel mondo, fra nonnismo da caserma praticato negli spogliatoi, ferocia nello scontro fisico in campo, tifoseria spesso, non a caso, virata al fanatismo politico, in battaglia da strada.

Con meno sforzo si possono osservare, ad esempio, nelle stazioni della metropolitana i manifesti sul campionato di rugby in corso: visi duri, teste rasate, denti digrignati. Da confrontare con le foto del sito in questione, dove la stessa determinazione “esplosiva” può celarsi dietro un sorriso, ambiguo come le parole che ho commentato.

Insomma, genitori, e soprattutto istituti scolastici, approfittate di questa esperienza consolidata, iscrivete i bambini ai corsi proposti, organizzate progetti nei Piani dell’Offerta Formativa che si avvalgano del lavoro di GDMI. È necessario – di questi tempi – saggiare i deboli corpi dei nostri “fanciulli” perché si rendano finalmente idonei all’educazione del futuro guerriero.

 

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