Questa affermazione si fonda su diverse ragioni. In primo luogo, se guardiamo alla teoria dei giochi, e in particolare al dilemma del prigioniero, emerge chiaramente che l’uso della forza è razionale solo in un caso estremo: quando si è in grado di distruggere completamente l’avversario con la prima mossa. In qualsiasi altro scenario, essere i primi a colpire genera costi insopportabili e una spirale di ritorsioni che peggiora la situazione iniziale.
In secondo luogo, le strategie nonviolente mostrano una superiorità strutturale. Esse richiedono una leadership molto forte e un controllo rigoroso dei comportamenti collettivi, mentre le strategie violente possono essere portate avanti anche da piccoli gruppi armati e determinati, spesso privi di un reale consenso popolare. Questo è al tempo stesso un limite e una debolezza della nonviolenza: funziona solo quando coinvolge grandi moltitudini capaci di disciplina e partecipazione. Tuttavia, è proprio questa caratteristica che la rende politicamente trasformativa.
Non è un caso che nella storia del movimento operaio e dei movimenti di resistenza l’idea di prendere il potere sia stata legata allo sciopero generale, alla manifestazione di massa, alla non collaborazione civile. Al contrario, la presa del potere attraverso le armi ha un costo politico altissimo: promuove all’interno del movimento rivoluzionario la componente più combattiva e spesso più brutale della popolazione e impone pratiche di segretezza, controllo dell’informazione e gerarchizzazione che tendono a riprodursi anche dopo il raggiungimento degli obiettivi, dando origine a regimi autoritari di tipo militare.
C’è poi un altro elemento decisivo: la dipendenza esterna. La resistenza armata vive delle armi e delle munizioni fornite da altri e finisce quasi sempre per diventare uno strumento di interessi che non coincidono con quelli della popolazione che dice di rappresentare. La storia è piena di esempi: dall’IRA, utilizzata in funzione anti-britannica da interessi americani, ai gruppi armati italiani degli anni Settanta, facilmente infiltrati da mafie e reti criminali proprio attraverso i canali di approvvigionamento delle armi, fino a molti movimenti rivoluzionari subordinati a potenze straniere. Le poche eccezioni – come Cuba o la Resistenza italiana – confermano la regola, e anche lì la dimensione militare è sempre rimasta subordinata a quella politica.
In particolare, la lotta partigiana italiana va compresa come un momento interno a una più ampia insurrezione popolare contro la guerra, centrata sul rifiuto della leva, sullo scioglimento del vincolo di fedeltà e sul “tornare a casa”. Fenomeni analoghi di rifiuto della leva si sono verificati anche in Sicilia sotto l’occupazione alleata, così come nell’Italia post-unitaria tra Ottocento e primo Novecento. Questo dimostra che la disobbedienza di massa è una forza storica ben più stabile della violenza organizzata.
La lotta armata, inoltre, richiede un controllo estremo e un riconoscimento internazionale, ed è estremamente fragile: basta un attentato o un’azione di sabotaggio da parte di gruppi che hanno interesse a prolungare il conflitto per far saltare qualsiasi tregua. È facilissimo iniziare una guerra, ma è difficilissimo finirla, soprattutto nel caso delle guerre civili.
Le strategie nonviolente funzionano particolarmente bene quando non prevale la dimensione nazionalistica, ma quella dei diritti civili. Il Sudafrica è un esempio emblematico: non si trattava di cacciare un colonizzatore, ma di trasformare uno Stato razzista in uno Stato multietnico fondato sulla cittadinanza. Anche in Palestina, la fase più efficace della resistenza fu quella nonviolenta guidata dal Mufti di Gerusalemme Hussein, basata su scioperi, manifestazioni e boicottaggi. Questa strategia riuscì a bloccare l’immigrazione ebraica durante il Mandato britannico e portò alla pubblicazione del Libro Bianco, che riconosceva la titolarità araba di tutte le terre arabe, in coerenza con gli impegni presi nel 1916 dagli inglesi col carteggio McMahon-Hussein bin Ali sheriff della Mecca.
A rafforzare l’argomento vi è anche una considerazione antropologica: gli esseri umani sono naturalmente più inclini alla cooperazione che alla competizione, come dimostrano sia la presenza dei neuroni specchio sia episodi storici come la tregua di Natale nelle trincee della Prima guerra mondiale. Gli eserciti, al contrario, tendono a dissolversi alla prova dei fatti: dall’8 settembre 1943 in Italia, all’esercito afghano addestrato per anni dagli occidentali e collassato in pochi giorni, fino a numerosi esempi africani. Dove circolano molte armi, finiscono quasi sempre nelle mani dei soggetti più pericolosi per la società.
Gli eserciti permanenti, del resto, sono una novità del Novecento e storicamente sono stati strumenti di oppressione interna e di colpi di Stato. Non è un caso che alcuni Paesi abbiano scelto di non averli o di ridurli al minimo, come la Costa Rica o la Tunisia di Bourguiba. Il benessere delle popolazioni cresce dove ci sono meno armi e meno forze armate, non il contrario.
La pace si costruisce sciogliendo gli eserciti dopo i trattati di pace, non mantenendo una pace armata permanente. La Guerra fredda, inventata politicamente da Churchill per giustificare la permanenza delle truppe usa in Europa e rinviare la dissoluzione dell’impero sancita dalla carta atlantica nel ‘41, ha consegnato il potere mondiale al complesso militare-industriale americano riducendo drasticamente le reali prospettive di pace nel mondo (parola di Eisenhower).
In conclusione, la storia mostra con chiarezza che la nonviolenza non è una scelta morale debole, ma una strategia politica più efficace, più stabile e meno distruttiva. La violenza, al contrario, genera dipendenza, autoritarismo e riproduzione del conflitto. Per questo, se l’obiettivo è una liberazione duratura, la strada obbligata passa dalla Nonviolenza.
Carlo Volpi










