Nel 1986, a 14 anni, Suleiman Khatib, dopo avere ferito due israeliani, viene rinchiuso nel carcere minorile di Hebron, dove «l’uso della tortura era all’ordine del giorno: picchiare i prigionieri, spruzzare gas lacrimogeni nelle celle e spogliarli violentemente erano all’ordine del giorno – e questa era una prigione per bambini»; lì, attraverso la pratica dello sciopero della fame, scopre l’efficacia della lotta nonviolenta.

Poi, in un altro carcere, ha la possibilità di leggere molto, anche sulla storia del popolo ebraico, rendendosi conto che «il conflitto ha molteplici narrazioni, per entrambi i nostri popoli», e che aveva sbagliato a identificare il nemico: «pensavo fosse il popolo ebraico, ma mi sbagliavo. Invece, abbiamo nemici comuni: odio, paura e traumi collettivi»[1]. Legge anche Gandhi e Mandela (di cui ritiene esemplare la Commissione per la Verità e la Riconciliazione). Nel 1997 viene scarcerato e si impegna per la pace.

Qui di seguito riassumerò e commenterò, per avanzare alla fine una proposta (anzi due), una sua bellissima intervista (https://open.spotify.com/episode/2ThG9zrOaBaAdsLlo2eOSW).

Entrato nella resistenza armata a circa 13 anni, Khatib inizia a organizzarsi in «un piccolo gruppo che lanciava pietre», fino a che, appunto come già detto, dopo l’incarcerazione non scopre che è possibile «vedere le cose da diverse angolazioni e narrazioni diverse della stessa storia».

Tra mille difficoltà, comprende che «dare spazio alla narrazione dell’altra parte» non significa necessariamente rinunciare alla propria; significa rendersi conto che la propria narrazione è «solo la storia con cui siamo cresciuti» («e, a proposito, quando parliamo di narrazioni, non si tratta necessariamente di fatti») – e ovviamente non significa neanche essere d’accordo con tutto ciò che ‘vede’ l’altra parte.

Quello che potremmo imparare tutti, a maggior ragione se non siamo parte in causa nel conflitto ma occupiamo una posizione terza (che non vuol dire equidistante) è, come punto di partenza, l’idea di verità come Satyagraha, termine gandhiano che indica la verità-realtà di tutti (che abbiamo gli strumenti per costruire)[2]. E immagino che il riferimento sia proprio a ciò quando Khatib afferma che «il riconoscimento è qui la chiave, riconoscere ciò che sta accadendo e ciò che è accaduto in passato, non ignorare nessuno perché siamo, siamo la verità e la realtà».

Con alcuni palestinesi e con ex combattenti israeliani che si sono rifiutati di prestare servizio nell’esercito Khatib, nel 2006, fonda  Combatents for Peace, «un movimento di base impegnato nella nonviolenza congiunta e nella fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi», perché «non esiste una soluzione militare (…). Non ci sono soluzioni rapide. È un lungo, lungo viaggio» che ha davanti molta strada visto che la logica diffusa è che «l’eroe è di solito il combattente», mentre della storia della nonviolenza «la gente non si cura nei media mainstream perché di solito nei media si vede il lato violento» – il che è la stessa cosa che succede tra noi[3].

«Dobbiamo umanizzare i combattenti», dice Khatib; poi precisa: «dopo aver umanizzato qualcuno, non puoi davvero odiarlo e sostenerne l’uccisione». Egli invita a «riconoscere tutti i lati della storia senza fare paragoni: chi sta soffrendo di più? (…) la nostra strategia è davvero quella di dare spazio a tutti gli uomini senza fare paragoni su chi soffre di più»: chi conosce la nonviolenza non faticherà a vedere qui, nella loro applicazione concreta, il principio di “non comparabilità delle sofferenze” di Pat Patfoort o l’“empatia per tutte le parti in conflitto” di Johan Galtung.

Suleiman Khatib parla anche della «Palestinian Freedom School» dove «non insegniamo solo la nonviolenza in teoria, ma anche in pratica», e dei seminari e incontri in cui vengono coinvolte persone che possano «esplorare» nuove possibilità di convivenza.

Quanto alla situazione attuale, «ovviamente siamo felici che il cessate il fuoco sia avvenuto. Non è esattamente come volevamo, ma è quello che è successo e speriamo che la ricostruzione di Gaza inizi presto, prima che inizi la pioggia»; in ogni caso, si cerca «la libertà e la sicurezza per tutti, dal fiume al mare».

Quella di Combatants for Peace  (Archives – Pressenza) non è l’unica esperienza nonviolenta di cooperazione tra i due popoli. A Wahat-al-Salam/Neve Shalom (Neve Shalom Wahat al-Salam, la comunità israelo-palestinese fondata su dialogo e convivenza) si ha addirittura una convivenza tra loro[4].

Perché ricordare tutto questo?

Per proporre ai miei amici palestinesi, che vivono a Palermo (e ciò si può proporre in ogni città), un incontro per cominciare a parlare di tutto ciò…

La proposta, in separata sede, vale anche per amici ebrei.

Poi, nella media/lunga durata, potrebbe svolgersi un eventuale (dunque, niente affatto obbligatorio) incontro ‘misto’.

Per contatti: Andrea Cozzo, andrea.cozzo@unipa.it

[1] https://www.afcfp.org/sulaiman-khatib.

[2] Cf. A. Cozzo, Un percorso didattico di storia ed educazione civica su Israele e Palestina, in ‘Pressenza’ 15.09.25 (https://www.pressenza.com/it/2025/09/un-percorso-didattico-di-storia-ed-educazione-civica-su-israele-e-palestina/) e l’intervento qui riportato https://maridasolcare.blogspot.com/2025/10/chi-ha-cominciato-e-questa-la-domanda.html che mi pare abbia molto in comune con quanto detto nell’intervista.

[3] Cf. il mio recentissimo Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro, Milano, Mimesis 2025)

[4] Cf. G. Ceccutti, Respirare il futuro. La sfida di Neve Shalom Wahat al-Salam, Milano, In Dialogo 2025. Cf. anche https://www.youtube.com/watch?v=KZN3l2ipesk.