Il linguaggio non descrive solo il mondo: lo costruisce. Le parole modellano ciò che percepiamo, ciò che riconosciamo e ciò che possiamo immaginare. In un vocabolario di genere, ridefinire i termini significa restituire visibilità a esperienze, corpi e relazioni che sono state a lungo marginalizzate.

Ogni parola diventa così un atto politico: uno spazio per ripensare il reale in chiave più inclusiva, plurale e responsabile.

La parola che ho scelto è PAESAGGIO.

Immagino adesso di interpretarlo secondo un’etimologia femminista:

Da una radice ipotetica pa- (“nutrire”) + -scapere (“plasmare”): il paesaggio come matrice generativa, spazio che nutre e dà forma. Oppure da pax (pace) + saggire (indagare): ciò che si esplora senza possedere. In entrambe le letture, il paesaggio è cura condivisa e non dominio.

Nel vocabolario di genere, paesaggio non è soltanto l’insieme di forme naturali o urbane percepite da un soggetto, ma uno spazio di relazione che si costituisce attraverso lo sguardo, l’esperienza incarnata e la responsabilità verso ciò che è fragile.

Il paesaggio è un luogo abitato dal corpo, e per questo viene inteso come situato: lo si vede sempre da una posizione parziale, storica, sessuata. Da una prospettiva di genere, il paesaggio diventa il teatro in cui si intrecciano potere, accesso, esclusione: chi può attraversarlo? chi è autorizzato a interpretarlo? chi viene nominato e chi invece resta invisibile?

Immagino adesso il paesaggio secondo una possibile prospettiva femminista:

Per Luce Irigaray, lo sguardo sul paesaggio è storicamente maschile: ripensarlo significa restituire respiro alla differenza e ai corpi che percepiscono.
Secondo Haraway, il paesaggio diventa un assemblaggio multispecie, una rete di relazioni che supera l’antropocentrismo.
In una prospettiva Butleriana, il paesaggio è performativo: costruisce e regola chi può abitarlo e come.

Ripensarlo significa anche ri-performare lo spazio in chiave inclusiva.

Secondo Cavarero, il paesaggio è l’insieme delle relazioni vocali che lo raccontano, anche quando sono state messe a tacere.

In dialogo con Simone Weil, il paesaggio può essere letto come uno dei campi in cui si manifesta ciò che lei chiama attenzione – una forma di disponibilità radicale al reale, un ascolto disciplinato che sospende il possesso e l’ego. L’attenzione, per Weil, è un gesto etico prima che cognitivo: non domina, non assimila, non consuma. Il paesaggio diventa così un luogo di attenzione all’altro e all’altra, un esercizio di decentramento che permette di vedere come i segni, le geografie, i confini non siano neutri, ma impregnati di relazioni di potere.

Il paesaggio, così concepito, smette di essere sfondo e diventa relazione responsabile: riconoscimento di vulnerabilità, possibilità di radicamento senza appropriazione, immaginazione di convivenze non gerarchiche. Il paesaggio insegna la misura, l’umiltà, l’idea che il vedere non è possedere ma riconoscere, custodire, restituire.