Tra ulivi bruciati e villaggi abbandonati, la Cisgiordania vive un conflitto invisibile: la lenta cancellazione di un popolo sotto gli occhi indifferenti del mondo politico.

La Cisgiordania è diventata una terra di ombre, di colline presidiate da uomini armati e villaggi palestinesi che si svuotano nel silenzio generale. Mentre il mondo osserva Gaza, qui si consuma un’altra guerra, più silenziosa ma non meno feroce: quella dei coloni israeliani contro i palestinesi. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), ottobre 2025 è stato il mese più violento degli ultimi vent’anni, con una media di otto attacchi al giorno. Una spirale di aggressioni che non si limita ai pestaggi o alle sparatorie: gli alberi di ulivo vengono bruciati, i raccolti rubati, le case devastate.

Nelle valli tra Nablus e Hebron, dove le famiglie vivono di agricoltura e pastorizia, il fumo degli uliveti incendiati si confonde con quello dei copertoni bruciati per difendersi. Le aggressioni arrivano spesso all’alba, con gruppi di coloni incappucciati che penetrano nei villaggi e costringono gli abitanti a fuggire. Molti palestinesi raccontano di aver visto i soldati israeliani osservare senza intervenire, o addirittura scortare i coloni durante gli attacchi. È una violenza che non sorprende più nessuno, ma che continua a dilagare nell’indifferenza quasi generale.

Bruciare, bruciare, bruciare

Nel solo 2025, secondo Reuters e The Guardian, decine di comunità rurali palestinesi sono state abbandonate dopo ripetute aggressioni. Migliaia di ulivi — simbolo della sopravvivenza e della radice stessa di quella terra — sono stati distrutti o sradicati. “Gli ulivi sono tutto per noi”, raccontano i contadini intervistati dal quotidiano britannico, “ci danno pane, olio e dignità. Bruciarli è come bruciare la nostra memoria”. La distruzione agricola è parte integrante di una strategia di spossessamento: colpire i mezzi di sussistenza per spingere la popolazione a lasciare il territorio.

Dietro questa brutalità c’è un mosaico complesso. I coloni non sono una massa indistinta di fanatici, ma una costellazione di comunità molto diverse tra loro: famiglie benestanti che si sono trasferite per godere di agevolazioni fiscali, giovani ultra-nazionalisti cresciuti nell’idea che la “Giudea e Samaria” siano terra promessa, gruppi ultraortodossi che cercano isolamento e controllo. Ma una minoranza sempre più attiva — organizzata, armata, convinta di essere l’avanguardia di una missione divina — ha trasformato le colline della Cisgiordania in un campo di battaglia permanente.

Violenti e protetti

Sono loro i protagonisti delle violenze più estreme. E la loro forza non deriva solo dall’odio, ma anche dalla protezione politica. Il governo israeliano, dominato da partiti dell’estrema destra religiosa, ha più volte bloccato o rallentato i processi giudiziari contro i coloni, riconoscendo retroattivamente decine di avamposti illegali. Le armi con cui agiscono non sono solo fucili, ma la certezza dell’impunità. Quando l’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha chiesto a Israele di “porre fine al sostegno agli attacchi dei coloni e di proteggere la popolazione palestinese”, la risposta è stata il silenzio. Un silenzio che vale come un lasciapassare.

La violenza dei coloni non è più soltanto ideologica. È diventata una forma di gestione del territorio, uno strumento di controllo. Gli attacchi non sono esplosioni di rabbia, ma parte di un disegno più ampio: creare paura, destabilizzare, spingere i palestinesi a lasciare le loro case. Alcuni ricercatori israeliani parlano apertamente di “strategia dell’erosione”, un piano che trasforma la quotidianità in assedio costante. Ogni famiglia che abbandona un villaggio rappresenta un piccolo successo per chi vuole spingere i confini dell’occupazione un po’ più in là. 

Fanatici educati alla violenza

Eppure, dietro la retorica biblica e la retorica della sicurezza, si nasconde anche un senso di frustrazione. Molti di questi giovani coloni, cresciuti in un clima di fanatismo e isolamento, sono vittime di un sistema che li ha educati all’odio e li ha usati come strumenti di una politica di espansione. In loro convivono il delirio religioso e la disperazione sociale, l’illusione di essere difensori di una fede e la realtà di essere carne da propaganda.

Ciò che resta, però, è la violenza. E il silenzio. Quello delle istituzioni internazionali che contano i morti e pubblicano rapporti, senza mai riuscire a fermare l’emorragia. Quello dei media occidentali che parlano di “scontri”, come se ci fosse simmetria tra chi occupa e chi resiste. Quello della stessa società israeliana, dove una parte crescente della popolazione sceglie di non vedere, di non sapere.

Cisgiordania, laboratorio di violenza

La Cisgiordania di oggi è un laboratorio di disumanizzazione. Case bruciate, bambini terrorizzati, ulivi carbonizzati, villaggi cancellati dalle mappe. Ogni colpo inferto a un contadino palestinese è una ferita aperta nel diritto internazionale, ma anche nella coscienza collettiva. E ogni volta che un soldato guarda altrove, che un politico giustifica, che un giornale tace, il crimine si ripete.

Non è più una questione di insediamenti o di confini. È una questione di umanità. E quella, in Cisgiordania, sta scomparendo.

Fonti:

Reuters, “Israeli settler attacks against Palestinians reach record number in October, UN says”, 7 novembre 2025.

The Guardian, “West Bank farmers prevented from harvesting by settler violence”, 3 novembre 2025.

UN OCHA, “Humanitarian Situation Update 337 – West Bank”, ottobre 2025.

UN Human Rights Office, dichiarazione del 16 aprile 2024.

Fivedabliu, “Cisgiordania, Herzog: “Condanno la violenta e crudele furia contro i residenti della cittadina palestinese di Huwara” 27 febbraio 2023