Martedì 11 novembre inizia il XVII Festival – curdi, saharawi e palestinesi, popoli perseguitati, ci indicano la strada della pace.

Vent’anni dopo

Quest’anno compie 20 anni l’idea che ponemmo alla base del nostro Festival, ma nonostante gli sconvolgimenti a cui abbiamo assistito in tutto questo tempo, la nostra filosofia esistenziale non cambia ed è riconducibile ad una breve affermazione: guardando agli ultimi della terra, impareremo a riconoscere gli errori di cui è capace l’umanità e a sopravvivere ad essi. Proveremo a dirlo con altre parole.

La speranza che le future generazioni potranno vivere in un mondo pacificato non è un’utopia, ma qualcosa che la realtà già ci mostra e che ci ostiniamo a non vedere. Per questo è necessario trovare spazi e tempi in cui si possa riflettere, insieme, sul mondo che ci circonda e sugli orizzonti verso cui procediamo e, se possibile, correggere la rotta finché si è in tempo. Questa, in sintesi, è la “missione” del nostro Festival: offrire strumenti di conoscenza, dialogo e cambiamento per apprendere a convivere pacificamente, salvare il pianeta e adottare le regole di uno sviluppo che sia umano e non solo economico e produttivo.

“Terre promesse, Terre rubate, Popoli senza Pace”

La XVII edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli cade nell’anno 2025, caratterizzato da guerre e massacri programmati da molto tempo e dalla crisi profonda del Diritto Internazionale, del Multilateralismo, del sogno di Pace universale e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che fu costituita nel 1948 per dire basta all’orrore della guerra, alle armi nucleari, agli stermini di massa e ai genocidi. Come si può constatare, nel breve volgere di 3 anni è stata quasi cancellata la lezione del Novecento e del Secondo Conflitto Mondiale, facendo rivivere nuovi nazionalismi, suprematismi, colonialismi e “soluzioni definitive” che dovrebbero assicurare il trionfo di alcuni governi (armati) a spese di altri popoli meno attrezzati militarmente e politicamente. Tutto questo è avvenuto apparentemente in un baleno, ma a guardar bene ogni mossa è stata programmata con dovizia di particolari e lungimiranza da chi non ha mai smesso di fare la guerra per assicurarsi il potere globale. Riproporre a distanza di 80 anni un progetto egemonico può sembrare assurdo, ma non per questo meno foriero di pericoli imminenti e futuri.

La comunità mondiale è ancora scossa dal rilancio del progetto di Grande America (Make American Great Again), stavolta a spese delle economie europee e cinese, per far fronte allo sfondamento senza precedenti del debito pubblico del gigante americano e alla crisi del dollaro, a cui tutto il mondo ha sempre guardato come ad una nuova base aurea. Per sostenere questa idea, gli USA minacciano di intervenire militarmente in alcuni degli scenari più critici del pianeta, immaginando persino un controllo interstellare, realizzato con migliaia di satelliti che ronzano attorno alla terra come stelle di un firmamento privato, ma tutti questi roboanti annunci hanno qualcosa di paradossale e sembrano sancire, implacabilmente, la fine del ruolo guida dell’Occidente capitalista.

A tali strategie, ispirate dal collasso di un modello di sviluppo ormai non più sostenibile, si accompagnano dolorosi colpi di coda, come il genocidio degli israeliani nei confronti del popolo palestinese, eternamente accusato di terrorismo, i rigurgiti nazionalisti dei russi in Ucraina, sapientemente stimolati dalle manovre Nato, e i paradossi di violenza istituzionale, dall’Argentina all’Iran, dall’Afghanistan alla Turchia, dall’Africa centrale alla subsahariana, dal Corno d’Africa al Congo e persino alcuni nella inerte Comunità Europea. Oltre 40 conflitti presenti in tutto il mondo sono il risultato di trenta anni di dominio incontrastato dell’economia liberista che oggi si ripiega su sé stessa.

In questo scenario disegnato dalla crisi dell’Occidente, il nostro Festival prova a rallentare l’onda delle emozioni e a spostare l’attenzione verso il basso, ascoltando le voci dei popoli perseguitati, quelli a cui vengono negati e sottratti da decenni la terra, le risorse materiali, l’identità, la cultura e la memoria per dare spazio al nuovo colonialismo e al furto di materie prime, accampando motivazioni storiche, religiose, filosofiche che, ad essere sinceri, appaiono quantomeno miserabili.

La nostra tesi è che la sofferenza di queste comunità, spesso costrette con la forza al nomadismo e alla diaspora, mostra quanta capacità di tolleranza e disponibilità alla pacifica convivenza ci sia in esse e che solo osservando il loro calvario si possa capire quanto assurde siano le strategie di espansione di cui sono vittime. Nel loro comportamento, nelle loro resistenze c’è già scritto il futuro del pianeta che non ha più le risorse naturali sufficienti alla sopravvivenza di tutto il genere umano e avrebbe bisogno di una filosofia di sviluppo meno consumistica e più aperta alla convivenza di culture diverse, per evitare il ripetersi di queste aggressioni.

Per questo abbiamo scelto di guardare alla storia passata e recente di tre popoli, i curdi, i saharawi e i palestinesi,  per ritrovare le ragioni che potrebbero frenare gli spiriti irrazionali del capitalismo e del colonialismo, dell’espansionismo imperialista e della guerra continua, per indicare una strada di crescita più adatta ai tempi che viviamo e che dovrebbero auspicabilmente preparare una Pace durevole.

Un Festival di speranza in un anno di guerra

Cercheremo quindi, nelle giornate del XVII Festival, di segnalare esperienze in grado di dare risposte credibili ai bisogni del pianeta e dell’ambiente e al fabbisogno di cooperazione tra i popoli che potrebbe sostituirsi alla corsa cieca alla competizione, dettata dai principi più aggressivi del mercato e del monetarismo.

È ormai chiaro a tutti, come evidenziato nelle precedenti edizioni del nostro Festival, che non sarà facile riformare l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sabotata da molti decenni dalla politica di globalizzazione degli Stati Uniti e dall’espansione della Nato, politica perseguita anche dopo che l’imperialismo russo aveva ceduto le armi e si era reso disponibile, per manifesta inferiorità, a fermare la corsa nucleare agli armamenti. E per questo sosteniamo convinti il disegno di Costituzione della Terra, promosso dal giurista italiano Luigi Ferrajoli, che postula la Pace, ipotizzando le garanzie che la Dichiarazione Universale del 1948 non ha saputo assicurare. Siamo consci che il processo di revisione dell’ordine mondiale sarà lungo perché contrastato dalle strategie dei blocchi di potere che usano armi poderose per far valere le loro ragioni. Una nuova guerra fredda è in corso e la nascita dei BRICS, l’organizzazione dei Paesi non Usa-centrici, offre spazi alternativi all’emergere di Paesi come Cina e Russia ed anche India e Brasile. Il nuovo equilibrio mondiale è in corso di definizione, ma nessuno può sapere quanto tempo e sangue serviranno per affermarlo.

I curdi e la proposta di disarmo di Abdullah Ocalan

Nel frattempo, abbiamo deciso di narrare, col nostro Cinema e i nostri eventi internazionali, quali strade impervie hanno scelto i curdi che, vivendo da sempre in diaspora, stanno sperimentando il Confederalismo democratico nel Rojava, nel nord della Siria, dove hanno mostrato di saper resistere da soli all’avanzata dell’integralismo islamico, salvando, con le armi in pugno, anche l’Europa da un imminente conflitto.

E proprio ad Abdullah Ocalan, indiscusso leader curdo, recluso da 26 anni nella prigione turca dell’isola di Imre, abbiamo voluto dedicare il Festival di quest’anno, perché la sua dichiarazione di disarmo e scioglimento del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi, apre le porte ad una nuova era che potrebbe segnare la fine di una catena di violenze, persecuzioni e guerre nel vicino Oriente e avviare un delicato dialogo col mondo arabo, che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non è mai stato tentato. E questo potrebbe essere il preludio a un nuovo periodo di pace.

Partiremo dunque dall’esame dell’appello lanciato da Ocalan il 25 febbraio 2025 per cercare nel senso delle sue parole di pace la via d’uscita di molti conflitti che hanno insanguinato l’ultimo secolo. E lo faremo discutendone con gli studenti delle scuole medie superiori di Napoli, gli universitari de L’Orientale, i loro docenti e tutti coloro che in questi ultimi mesi sono scesi in piazza per rifiutare la guerra e difendere le conquiste del Diritto internazionale davanti agli orrori compiuti dal governo israeliano, fiancheggiato dalla Casa Bianca, e alla strage voluta dai gruppi filoislamici di Hamas.

La proposta di Ocalan fa riferimento a un modello sociopolitico innovativo, il Confederalismo Democratico, che, consapevole dei limiti storici del socialismo, risponde alle più moderne sfide poste dal capitalismo occidentale, approda ai principi democratici europei: un approccio concretamente realizzato nel nord della Siria, in quella regione del Kurdistan che conosciamo con il nome di Rojava. E di questa rivoluzione silenziosa il nostro cinema darà alcuni esempi nelle giornate del 18 e 19 novembre. Nell’indicare la strada del domani, quindi, Ocalan offre a tutta la regione orientale una mediazione tra l’estremismo radicale arabo e il sionismo dilagante, proponendo innanzitutto il disarmo e poi rilanciando il modello democratico e partecipativo e l’organizzazione dal basso delle piccole comunità che le politiche europee hanno sempre sostenuto e mai realizzato.

La fermezza del popolo del deserto, i saharawi

Non poteva mancare, nella nostra analisi, l’esame del caso saharawi, un popolo che da decenni lotta contro il furto della propria terra e del proprio mare a opera del governo marocchino. Un popolo diviso, anche fisicamente, dal muro più lungo del mondo dopo la Muraglia cinese e da un campo minato che conta milioni di ordigni disseminati sotto la sabbia del Sahara. Anche per i saharawi, il popolo del Sahara occidentale, la filosofia di pace è il motore primo della richiesta del riconoscimento della loro terra e delle loro tradizioni. Un modo diverso di affrontare l’apartheid imposto e sostenuto da Paesi come la Spagna e il Marocco, ha fatto sì che anche le loro carceri e i loro sistemi istituzionali fossero orientati a un’umanità diversa da quella dei loro invasori. Ben lo sanno tutti i comitati italiani di sostegno che sono fioriti nelle nostre regioni e offrono periodicamente ospitalità ai bambini saharawi, agli studenti e alle famiglie. La loro sopravvivenza è segnata profondamente dalla civiltà e dalla cultura di popolo antico che ha resistito alle invasioni coloniali dell’Ottocento e Novecento senza farsi sconvolgere, che ha tentato la scelta della resistenza pacifica e ha saputo maturare una saggezza che merita il nostro rispetto e il riconoscimento di un’identità forte e maestra che attende giustizia dagli altri popoli della terra e dall’Onu, che annuncia da decenni un referendum di autodeterminazione che non arriverà mai.

Palestina libera!

Infine come dimenticare i palestinesi, lo scippo della loro terra, la Nakba, l’apartheid imposto dall’occupazione israeliana dal 1967, l’Intifada degli anni 80 e del Duemila, il genocidio di questi ultimi anni che ha trucidato quasi centomila persone in 24 mesi, lasciandole insepolte sotto le macerie di Gaza, umiliando vivi e morti con sadiche procedure diffuse mediaticamente, uccidendo migliaia di civili indifesi, bombardando ospedali, schernendo e torturando i prigionieri politici, occultando i cadaveri per impedire il riconoscimento delle crudeltà loro inferte e, ultima beffa, l’aggressione sistematica ai contadini della Cisgiordania.

A loro va il riconoscimento di essere le vittime più recenti di nazionalismi resuscitati dalla follia suprematista e l’ammirazione per avere resistito a mani nude nell’affermare che quella “terra promessa” pretesa dagli israeliani è soltanto una terra rubata che non fu mai negata a nessuno, ma andava condivisa e non doveva essere espropriata in nome di un dio pagano che avrebbe chiesto centinaia di migliaia di sacrifici umani.

Anche per i palestinesi vale quello che è stato detto per i curdi e i saharawi: la loro strenua resistenza ci indica che nessun popolo lascerà seppellire la propria cultura, la memoria della propria civiltà, ma resisterà a oltranza all’invasione, al massacro e alle deportazioni, persino al genocidio che è in corso mentre scriviamo.

Epilogo

A nostro avviso, è tempo di riconoscere in queste resistenze umane il seme del domani, il valore immortale della dignità espressa dai più deboli in decenni di lotte, per affermare davanti alla Storia la solidarietà e il diritto alla vita negato da chi impone il proprio potere con arroganza e forza.

È questa la strada tracciata dal nome della XVII edizione “Terre promesse, terre rubate, Popoli senza Pace”, perché l’impegno di creare una nuova Cultura di Pace passa da qui, ovvero dal riconoscimento a tutti i costi dei Diritti dell’altro, amico o nemico che sia.

P.S. Cogliamo l’occasione per dire grazie ad alcune persone che ci hanno aiutato nella preparazione delle giornate di eventi internazionali di questo XVII Festival che si profila più complesso delle precedenti edizioni. Grazie pertanto a Patrizio Esposito, fotografo e intellettuale napoletano, a Mario Martone jr, filmaker da sempre vicino alle lotte dei saharawi, ad Alfio Nicotra, già copresidente della ong Un Ponte per, a Gianni Tognoni, storico segretario del Tribunale Permanente dei Popoli e a Ylmaz Orkan, dirigente dell’Ufficio Informazioni del Kurdistan in Italia per averci aiutato pazientemente a costruire percorsi di memoria e di elaborazione politica a conforto della nostra tesi. E grazie all’instancabile relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina e i territori occupati Francesca Albanese, che non ci lesina mai un consiglio e un suggerimento cinematografico, nonostante le terribili tensioni a cui è sottoposta dall’attacco di smisurata violenza, di cui è obiettivo da anni, ad opera del movimento sionista internazionale e del governo degli Stati Uniti.

Il XVII Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli comincerà l’11 novembre e si concluderà il 21 dello stesso mese e avrà come sedi principali lo Spazio Comunale Piazza Forcella in via della Vicaria Vecchia, 23, Napoli e l’Aula delle Mura Greche di palazzo Corigliano, sede dell’Università L’Orientale, in piazza San Domenico Maggiore, Napoli. Il programma della manifestazione sarà disponibile, a partire dal 5 novembre 2025, sul sito ufficiale della manifestazione www.cinenapolidiritti.it e sulle pagine social dello stesso Festival. Tutti gli eventi del Festival sono a ingresso libero e gratuito.