Nella nostra società multimediale e iperconnessa, l’uso dei social, come di altri strumenti e servizi digitali – le app, ad esempio, ce n’è una per ogni esigenza – è ormai diffusissimo, al punto tale che anche la persona più âgée non ricorda com’era la vita prima che fosse scandita dall’accendersi e dallo spegnersi della luce blu di uno smartphone.
Già, com’era prima?
Chi lo sa, indugia in nostalgici ricordi di telefoni analogici, dispositivi tradizionali che trasmettevano la voce convertendola in segnali elettrici che viaggiavano su cavi di rame, oppure di televisioni a tubo catodico. Sgomenta addirittura pensare che ci siano stati anni in cui non eravamo raggiungibili ovunque e comunque, come oggi siamo sempre, attraverso una rete dati, Wi-Fi o hotspot offerti da amici, colleghi di lavoro o perfetti ma generosi sconosciuti: ma come abbiamo fatto a vivere così?
Per i nativi digitali, invece, un “prima” non c’è: tutto è nato nel ventunesimo secolo e il Novecento, sfondo fondamentale per le generazioni che li hanno preceduti, sembra essere retrodatato di cento anni, quasi a rappresentare un periodo della vita dell’uomo sulla Terra lontanissimo da oggi, come se non vi fosse continuità temporale tra secondo e terzo millennio.
Insomma, per gli appartenenti alla Generazione Z è come se l’umanità fosse sempre vissuta all’interno dell’attuale sistema informativo-relazionale, complesso intreccio fra calcolo e connettività digitale che non si chiama più nemmeno Internet: va oltre Internet e si configura come un’infrastruttura in cui le tecnologie computazionali e quelle comunicazionali si sono saldate all’interno di piattaforme su scala globale, gestite da pochi attori privati, monarchi del regno del big tech.
Visualizzare questa dicotomia fra archi generazionali è fondamentale per capire l’enorme impatto che la violenza digitale ha sulle persone, nell’ambito del più ampio fenomeno della violenza che un essere umano o un gruppo di esseri umani può dirigere verso i propri simili.
Una persona nata prima dell’avvento della società della comunicazione, se parla di violenza digitale, è probabilmente incline a pensare che si tratti di un fatto relegato al virtuale e, pertanto, meno impattante sulla vita reale. Chi scrive lo può testimoniare. Questo modo di ragionare – che inevitabilmente proviene dal modo in cui, come esseri pensanti, ci siamo formati – tende a mitigare la rilevanza del fenomeno: esso è immateriale, pertanto intangibile.
Invece, le persone nate nell’era digitale, soprattutto in quella che Tiziana Terranova, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Orientale di Napoli, definisce “il dopo Internet” (primo ventennio del Duemila), hanno sperimentato, fin dalla nascita, che sul piano degli effetti violenza digitale e violenza fattuale si intrecciano in un unicum perverso e inestricabile, tanto da essere l’una la cassa di risonanza dell’altra e viceversa.
Soprattutto, hanno sperimentato e introiettato come il piano di interazione su cui si riproduce, tra gli altri fenomeni sociali, anche quello della violenza digitale, sia governato dai giganti finanziari che monopolizzano le piattaforme. Negli anni precedenti al ventennio del terzo millennio, invece, se pure si stava già mostrando l’effetto fortemente impattante della connessione globale sulla vita del pianeta e dei suoi abitanti, ci si percepiva come umanità dentro un’opportunità: la società della conoscenza sembrava aprire le porte a un modo nuovo di essere collettività. O, quantomeno, così ci veniva raccontata dalla narrazione mainstream.
Oggi sappiamo bene che la violenza digitale, come tutto ciò che accade attraverso e dentro le piattaforme, può essere effettiva, concreta, tangibile tanto quanto quella che avviene sul piano fattuale: usa solo strumenti, in parte, differenti.
Alla luce di queste trasformazioni sociali – che Terranova descrive molto bene nel suo libro Dopo Internet (Ed. Nero, 2022) – si può facilmente comprendere che la rete non è neutra. Quando il campo di osservazione si restringe agli aspetti più specificatamente di genere, l’impatto della violenza digitale sulla vita di una persona cambia in base al suo sesso e al modo in cui il suo corpo è situato nel mondo.
La studiosa di innovazione sociale Lilia Giugni, attivista femminista intersezionale, ha prodotto su questo tema un testo meraviglioso quanto necessario ( La rete non ci salverà , Longanesi, 2022), in cui dimostra, dati alla mano, perché la rivoluzione digitale è sessista e che:
“Molestie e minacce online, pornografia non consensuale, informazioni personali condivise senza permesso: in tutto il pianeta milioni di donne sono esposte alla violenza digitale. E le cose non vanno meglio dall’altra parte dello schermo. Ingegnere IT, influencer e altre lavoratrici del tech discriminate o sfruttate sul lavoro. Pregiudizi sessisti dell’intelligenza artificiale e forme discriminatorie di smart working. Catene di produzione high-tech intrise di abusi e misoginia, e abissali disparità di genere nell’accesso alle risorse tecnologiche.”
Insomma, ecco descritto – in parole tutt’altro che povere – come è messo il nostro mondo tecnologicamente avanzato sotto il profilo dei diritti civili.
Nel libro si dimostra che la violazione degli stessi si lega profondamente al modo in cui è costruito il nostro sistema economico. Come nelle altre industrie della globalizzazione, anche l’industria del tech è basata su discriminazioni sociali e sfruttamento del lavoro.
A partire da fatti di cronaca, l’autrice descrive vari piani su cui avviene l’ingiustizia:
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quello al di qua dello schermo, in cui la violenza digitale di genere si attua, per citare alcune modalità, attraverso l’odio manifesto sui social, la manipolazione della privacy, la sessualizzazione delle immagini del corpo femminile o la ridicolizzazione dei corpi non binari e queer, il cyberbullismo ai danni di chi è considerato fuori dai canoni estetici e comportamentali convenzionali;
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quello dietro lo schermo, in cui si registra un costante sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori gig, cioè coloro che vengono ingaggiati con incarichi flessibili e precari attraverso piattaforme digitali nell’ambito del lavoro on demand o nella gestione di servizi di delivery;
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quello delle discriminazioni attuate attraverso una digitalizzazione dei servizi che esclude progressivamente le persone prive di accesso all’educazione informatica, alimentando un vero e proprio fenomeno di ghettizzazione conoscitiva (si pensi alla difficoltà di utilizzo dello SPID);
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quello dell’uso degli strumenti di riconoscimento facciale per creare esclusione dei volti non conformi agli stereotipi della bianchezza , oppure per attuare forme di repressione e persecuzioni politiche.
Questa breve riflessione non ha l’intento di metterci in stato di ansia rispetto all’uso della tecnologia né di favorire atteggiamenti luddisti, quanto di dare visibilità ai lavori di ricerca coraggiosi e validi – sopra citati – che su questo tema conducono con chiarezza a una consapevolezza: quella che, come Giugni scrive nella sua efficace introduzione al testo,
“la lotta per la giustizia di genere nel ventunesimo secolo non può che passare per due binari paralleli: la denuncia della violenza e dello sfruttamento attivati dalla tecnologia, e quella delle oscene disuguaglianze nella sua distribuzione sociale e geografica.”
🔵 Web 2.0
🔵 Dopo Internet – Edizioni Nero
🔵 Generazione Z – Treccani
🔵 Il privilegio della bianchezza – il manifesto
🔵 Gig economy: come funziona e vantaggi – Randstad
🔵 La rete non ci salverà – Lilia Giugni (Google Books)










