Proponiamo ai lettori di Presenza un estratto dell’intervista del filosofo francese (integralmente leggibile in originale su blogs.mediapart.fr), pubblicata in versione ridotta sul blogmagazine NoteBlock. In particolare vogliamo rilanciare la risposta articolata attorno al punto di domanda che abbiamo già anticipato nel nostro titolo. Nello specifico a Balibar viene chiesto se ritiene ancora praticabile l’ipotesi dei “due stati” come soluzione del conflitto in Palestina. La questione è di straordinaria attualità alla luce anche dei recenti accordi posti in essere in quel di Sharm el Sheikh[accì]

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No, non ho mai menzionato questa “soluzione”. O più precisamente, seguendo le orme di Edward Said, ho sempre sostenuto che l’alternativa della “soluzione dei due Stati” e della “soluzione dello Stato unico”, indipendentemente dalle fluttuazioni di significato che ciascuna di queste due espressioni comporta, è un’alternativa astratta, burocratica e mistificante. Il punto di vista da cui si deve adottare una “soluzione” di qualsiasi tipo si trova al di sotto di questa alternativa; è il principio di uguaglianza delle voci in materia, nonché dei diritti storici, o meglio, del diritto di esistere. Uguaglianza o niente. 

Due popoli su una sola terra, uno dei quali schiaccia e distrugge l’altro, e l’altro dei quali può solo desiderare di sbarazzarsi del suo oppressore, tali sono i fatti dell’equazione storica che una “politica” (o cosmopolitica) da inventare, formulare, accettare dai suoi stessi attori e imporre al mondo deve risolvere. Questa è anche la conclusione di Rachid Khalidi (il cui libro, a dire il vero, è stato scritto prima del 7 ottobre 2023): ” forse tali cambiamenti [nella geopolitica globale e nella natura dei regimi politici locali] consentiranno ai palestinesi, insieme agli israeliani e ad altri in tutto il mondo che desiderano pace, stabilità e giustizia in Palestina, di tracciare una traiettoria diversa da quella dell’oppressione di un popolo da parte di un altro. Solo un percorso basato sull’uguaglianza e sulla giustizia è in grado di concludere la guerra centenaria in Palestina con una pace duratura, che porti con sé la liberazione che il popolo palestinese merita “.

Il progetto attuale, nel quadro più generale del piano di annessione della Palestina, suggerisce un’altra riflessione: si tratta dell’incorporazione di una tendenza costitutiva dell’insediamento israeliano (favorito dal sionismo come ideologia dei “pionieri”) nel programma di artificializzazione del mondo che caratterizza ormai il modo di produzione capitalistico. Chiunque abbia viaggiato in Israele non può non essere colpito dal fatto che il “ritorno” a una terra dichiarata ancestrale (da cui gli ebrei sarebbero stati “esiliati”, non in un esilio metaforico o spirituale, ma in uno storico e materiale) non può realizzarsi che nella forma di una purificazione del territorio da tutto ciò che riflette la sua storia millenaria, inscrivendo nel paesaggio e nell’architettura delle città i segni della civiltà arabo-musulmana (e incidentalmente romana, cristiana, ottomana): occorre sostituirla con un ambiente “moderno” (non tanto “ebraico” del resto, perché una tale cultura in quanto tale non esiste, o potrebbe solo rimandare alla tradizione dei “ghetti” che è oggetto di sprezzante repressione) concepito e realizzato ex nihilo . Il sionismo “reale” (quello che si attua praticamente nella creazione della nazione israeliana e del suo territorio) è così poco sicuro, in realtà, del legame essenziale che mantiene con la terra di Palestina, che deve distruggere sistematicamente tutto ciò che porta e che ha in qualche modo generato, per impiantarvi i segni ostentati di una proprietà fittizia. Questa tendenza assume forme particolarmente brutali nella costruzione di colonie fortificate e strade riservate che attraversano la Cisgiordania. A Gaza, dove si combinano etnocidio, storicidio e domicide o urbicidio, si raggiunge lo stadio ultimo in cui anche la traccia delle tracce deve scomparire. Dopo gli edifici, le università e le moschee, i cimiteri vengono rasi al suolo sotto l’azione di bombe da 1.000 chili e giganteschi bulldozer. Ma a questo punto, la tendenza storica del sionismo si inserisce direttamente nel programma del capitalismo postindustriale (che altrove ho chiamato capitalismo assoluto): un capitalismo finanziario estrattivista che sfrutta le risorse della tecnologia rivoluzionata dall’Intelligenza Artificiale e dall’uso di materiali sintetici per deterritorializzare completamente l’habitat umano, “inventando” città del futuro slegate da alcun passato, in cui il comportamento degli individui è interamente governato dalla circolazione del denaro, dal telelavoro e dal consumo precondizionato.

Naturalmente, ogni guerra, ogni massacro, ogni sterminio ha le sue cause specifiche, che affondano le radici in una storia singolare (e in particolare in una specifica figura di costruzione nazionale o coloniale, e nella resistenza che essa suscita, come vediamo in Ucraina così come in Palestina). Non deriva semplicemente dal fatto che gli armamenti accumulati su entrambi i lati di un confine (o di un super-confine) abbiano raggiunto la “massa critica”. Richiede materiale ideologico infiammabile e una situazione di impasse o squilibrio politico che spinga il “sovrano” (cioè lo Stato) a ricorrere ad “altri mezzi” (come la Russia per preservare il suo impero dopo il crollo del sistema sovietico). Ma questa sovradeterminazione non cancella l’effetto generale della tendenza alla militarizzazione delle economie e delle società che costituisce l’imperialismo. Anzi, la intensifica in momenti e momenti specifici. Accelera la formazione di quelli che vorrei chiamare “stati banditi” (come un tempo si parlava di stati canaglia ), sia produttori di armi che istigatori del loro uso massiccio. La loro caratteristica, tuttavia, è che, lungi dal trovarsi “outsider” rispetto alla società (internazionale) di altri stati, sono piuttosto assiduamente ricercati come partner e fornitori. Israele è chiaramente uno di questi (simmetrico alla Corea del Nord dall’altra parte del mondo?).

D’altro canto, le nuove coalizioni di interessi caratteristiche dell’equilibrio di potere e della distribuzione dei “campi” nell’attuale spazio imperialista non coincidono più con le tradizionali geografie di demarcazione tra Occidente e Oriente. La più significativa è la strategia delineata a partire dagli “Accordi di Abramo” (2020), a cui l’Arabia Saudita stava chiaramente considerando di aderire alla vigilia del 7 ottobre 2023. Si tratta (o si trattava) di costituire una triplice alleanza in cui l’Europa non svolge più alcun ruolo fondamentale, ma i cui pilastri sarebbero la potenza militare

americana, la finanza degli stati petroliferi del Golfo e la tecnologia israeliana, strettamente intrecciate tra loro. Questo è ciò che mi porta a proporre – in modo ipotetico e interrogativo – sia che l’Occidente cessi di coincidere con lo spazio dell’«uomo bianco occidentale», sia che Israele sia passato dallo status di protetto a quello di perno. In definitiva, si potrebbe dire: non è più l’Occidente che sostiene Israele, è Israele che detiene l’Occidente.

Non credo nell’emergere di una “internazionale fascista”, almeno nel senso forte del termine, che presupporrebbe un piano per governare il mondo, un coordinamento di movimenti e leadership politiche nazionali. I rudimenti di tale coordinamento esistono, è vero (ad esempio, quando Putin sovvenziona l’estrema destra in Europa, o quando l’amministrazione Trump sostiene l’AfD in Germania, o cerca di impedire al Brasile di processare Bolsonaro per il suo tentativo di ribaltare le elezioni, simile al suo), ma sono incompatibili tra loro e ostacolati dall’effetto dei conflitti inter-imperialisti. Ciò che ha reso possibile la formazione di un’internazionale fascista negli anni ’20 e ’40 è stato il fatto che esisteva… un’internazionale comunista, di cui voleva essere l’antagonista, una rivoluzione di cui organizzava la controrivoluzione. Oggi non esiste un equivalente di questa configurazione “amico-nemico”.

La rivendicazione del “nome ebraico” (come dice Milner, condensando in questa espressione di aver inventato il riferimento al patronimico con il segno dell’esistenza di una tradizione trasmessa dalle generazioni del “popolo ebraico”) mi sembra avere oggi una funzione strategica, non nel senso di una piccola operazione di divisione tra “campi” all’interno dell’ebraismo (qualunque estensione si dia a questa appartenenza), ma nel senso di una presa di posizione storicarispetto all’uso che una specifica politica (e istituzione) statale fa del nome ebraico . Si tratta dunque di un’operazione performativa, che non ha alcun significato in assoluto, ma solo nelle sue modalità e nel suo contesto. Il gesto ai miei occhi ammirevole a cui farò qui riferimento (tutto sommato) è quello dell’ex Presidente della Knesset, Avram Burg, che ha appena chiesto ufficialmente all’ amministrazione israeliana di togliergli la qualifica di “ebreo”, poiché questa è diventata in Israele (in virtù della decisione costituzionale votata nel 2018) un segno di appartenenza al “popolo dei padroni”, che lo distingue dai suoi sudditi e lo protegge da un destino simile al loro. Avram Burg, vivendo e parlando in Israele, non vuole essere considerato ebreo in tempi di genocidio, genocidio legittimato dalla “difesa del popolo ebraico”. Vivendo e parlando fuori da Israele , ma nel contesto del dibattito sul valore e la funzione del sionismo da cui dipende essenzialmente il nostro futuro politico, mi dichiaro “ebreo” in solidarietà con tutti gli ebrei del mondo che si oppongono al colonialismo israeliano protestando contro la sua appropriazione della rappresentanza degli ebrei in generale, e per contribuire con i mezzi a mia disposizione a mostrare l’importanza e la dignità della loro lotta. Allo stesso tempo, tengo molto a specificare che questa proclamazione si riferisce a un’ebraismo simbolico e non a un ebraismo religioso o comunitario (con il quale non ho alcun legame). E sottolineo che questa “appartenenza” simbolica è non esclusiva (in relazione a ogni sorta di altre, eventualmente “contrarie”), il che è, del resto, un buon criterio per distinguere tra “ebraicità” ed “ebraismo”.

Preferisco quindi definirmi “ebreo” piuttosto che dire di essere “ebreo”. E preferisco dire che è una questione di appellativo piuttosto che di essere (proprio come Avram Burg, per le stesse ragioni storiche ma da un’altra prospettiva politico-culturale, rivendica l’appellativo di “non ebreo” senza cessare di essere chi era).

Infine, salendo di un altro gradino nell’ordine delle rivendicazioni simboliche, mi definisco “ebreo” perché mi turba l’idea che i significati morali e perfino religiosi, e di conseguenza filosofici, portati nel corso della storia dall’ebraismo – dalle parole dei profeti d’Israele al discorso di quei rinnegati o eretici che hanno nutrito la mia formazione intellettuale (Montaigne, Spinoza, Marx, Rosa Luxemburg, Freud, Kafka, Benjamin, Arendt, Simone Weil, Derrida che è stato il mio maestro) – possano ormai essere associati, per lungo tempo e persino per sempre, non più alla resistenza alla persecuzione e alla ricerca dell’autonomia intellettuale, all’imperativo della morale e della giustizia e alla discussione dei suoi mezzi (compresa la rivoluzione), ma all’oppressione e allo sterminio di un altro popolo sotto l’invocazione di questo “nome”. Penso che l’onore del nome ebraico debba essere difeso da questa infamia, e che si debba esprimere una rivolta. Essa ha una portata universale, come l’ebraismo stesso, ma deve essere espressa in tutta la sua forza parlando in prima persona , perché è una convinzione interiore e una sfida rivolta agli altri.

traduzione di Michele Ambrogio

 

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