DALLA PARTE DI ABELE invia un testo, con un messaggio:

“Mettiamo a vostra disposizione il contributo di Bruna Peyrot che riprende e argomenta l’intervento da lei fatto all’incontro Il tempo è adesso: sguardi sulla Palestina (video sotto), organizzato il 20 agosto scorso a Torre Pellice da Dalla parte di Abele. Nella nuova fase che si sta aprendo in questi giorni a Gaza e in Israele, pensiamo sia utile uno spazio di approfondimento e anche di discussione che non si fermi alla contrapposizione ma che al contrario offra la possibilità di confronto e approfondimento”.

La “forza” della storia

Il nostro modo di ragionare non spiega più la realtà.

Tutto sembra crollare, dal rispetto del diritto internazionale ai valori della convivenza civile.

Su ogni “fatto” si scatena il tifo.

I cervelli sono costretti ad accumulare fatti come noci in un cestino, dimenticando l’albero da cui sono cadute.

Invece, fare storia implica proprio questo.

Pensando il passato, si entra in una riflessione in cui le esperienze, che da sole non producono significati, lasciano capire i loro percorsi, svelandone le intenzioni perché, dice Marc Bloch, “i fatti storici sono essenzialmente fatti psichici”. I percorsi implicano le “totalità” non solo i loro “particolari”.

Affrontarla coinvolge i modi del narrare.

Ciò vale anche per la storia valdese.

Gli studiosi affermano l’impossibilità di leggerla come percorso unico perché, ad esempio, l’adesione alla Riforma (1532) cambiò l’identità comunitaria, così come la ricostruzione del bon ordre dopo il Rimpatrio (1689), quando i valdesi dovettero imparare a convivere con chi li aveva considerati disobbedientissimi.

L’aggettivo “valdese” – che oggi identifica una chiesa nazionale e un mondo alpino (le Valli del Piemonte) con una sua specificità, sebbene non economica, di certo culturale – contiene una storia che ha una valenza sulla quale si riflette poco: nonostante le persecuzioni prima violente (dal XIII al XVII secolo), poi sociali perché considerati sempre un’anomalia, i valdesi non hanno mai interiorizzato, né si sono mai presentati con un’identità di vittima. Hanno sempre messo avanti la propria dignità di persona, idea “costruita” dalla Riforma e rafforzata da una lunga tradizione pedagogica.

La ricerca scientifica ha studiato la storia valdese oltre la retorica, tuttavia, la narrazione divulgata ha sedimentato nelle soggettività un “fondo” di valori interiorizzati: resistenza, autonomia, dignità.

Fra i molti esempi, eccone uno. Nel 1488, l’inquisitore Cattaneo per il Delfinato e l’alta val Pragelato convoca i capifamiglia al tribunale di Briançon. Presagendo l’invasione armata, i valdesi consegnano un messaggio in cui dichiarano di essere sudditi obbedienti, fieri di imitare gli apostoli. Mentre il Cattaneo s’indispettì che quegli «uomini rustici e ignari delle lettere diano di piglio nella fede alla Chiesa santa e cattolica», colpisce la consapevolezza valdese di “valere”, tanto da proporre un dialogo in parità sui testi fondanti la cristianità medievale.

Un altro aspetto della storia valdese in “totalità” è che suscita forza e speranza, come ogni storia di resistenza in tempi chiusi alle libertà. Lo conferma spesso chi la sente raccontare: i visitatori del Museo Valdese di Torre Pellice, i gruppi in visita alle Valli o il pubblico nelle varie conferenze.

Molti esempi potrebbero dimostrare il conforto portato ai sentimenti di resistenza dalla memoria storica.

Fra gli altri, negli anni ‘30 del ‘900, in pieno fascismo, le recite per la festa del 17 febbraio, con personaggi ostinati nella difesa della libertà, nello stesso tempo la insegnavano, trasmettendo un valore etico. E nel suo diario durante la Resistenza, Jacopo Lombardini, a suo conforto, ricorda che anche Gianavello aveva percorso gli stessi monti, fra una baita e l’altra.

Altra forma del “portare” il passato è in uso oggi nel sionismo israeliano.

«Fare i conti col passato è difficile, scrive fra gli altri David Bidussa, soprattutto per chi con la storia ha sempre avuto un’immagine di vittima senza analizzare le proprie responsabilità» (Il secolo XIX, 2.2.2018).

Aggiunge Edgar Morin «il vittimismo è il veleno demagogico che alimenta ogni oltranzismo: nel vantarsi come vittime ogni nazionalismo aggressivo, ogni fondamentalismo ideologico o religioso fonda la giustificazione del proprio arbitrio, la trasformazione del proprio arbitrio in diritto illimitato di rivalsa, della propria aggressività in legittima difesa, del proprio terrorismo in difesa dal terrorismo. Ieri come oggi».

Se con la Shoa si vuol fare dell’ebraismo una «eterna vittima, continua Morin, che impone all’umanità un eterno debito… significa erigere la Shoa a un idolo del proprio destino di vittima» in contrasto con sapienze e testi ebraici che, invece, invocano la resistenza alla condizione di vittima attraverso i secoli (La resistenza dello spirito, La Stampa, 24.01.2024).

Da un punto di vista psicanalitico Fornari (Psicanalisi della guerra in N.Janigro, La guerra moderna come malattia della civiltà, Milano 2002), paragona la guerra a un iceberg con due punte, una visibile, l’altra invisibile. La prima motiva la difesa da un pericolo esterno (che si decide di aggredire per primi o al quale rispondere in armi); la seconda è alimentata da una realtà fantasmatica del “terrificante” che si porta dentro dopo un grande trauma.

Il “nemico interno” trova sempre, se non elaborato, un “nemico esterno” da cui difendersi.

In questa dinamica, la storia è plasmata da fatti veri ma destoricizzati, utili a governare il presente: «persino con uno Stato – dice Peter Beinart – continuiamo a essere delle vittime» (Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza, Milano 2025, p.38).

L’Olocausto, fatto incontrovertibile e un trauma disumano, assunto come evento metaforico del “male assoluto”, fa uscire dalla storia ed entrare in una costruzione sociale in cui se ne proclama la possibile ripetizione, allarme utile a giustificare qualsiasi politica per evitarlo.

L’essere vittima, insomma, non è un dato esistenziale perenne ma una condizione prodotta da congiunture storiche. Soprattutto non dà il diritto di ripetere lo strazio subìto su altri popoli, in nome di una difesa a oltranza.

L’essere stato vittima o perseguitato non ha soluzione nella vendetta o nella chiusura identitaria, ma nell’assumersi la responsabilità concreta utile ad aprire strade di emancipazione a chi ancora non le ha come, pur fra inevitabili contraddizioni, l’impegno valdese ha continuato a fare, chiedendo per altri lo stesso riconoscimento conquistato per sé.

Bruna Peyrot – Torre Pellice, 20 agosto 2025

 

BRUNA PEYROT : storica e saggista, presidente della Fondazione Centro culturale valdese, conduce da anni ricerche sulle identità, memorie e percorsi di costruzione democratica di singoli e gruppi in Europa e America latina. Ha pubblicato numerosi libri e saggi, tra cui: La cittadinanza interiore (Città aperta), La resistenza del silenzio. Per una proposta politica e democratica (Mimesis) e, per la casa editrice Claudiana, «Essere terra». Le valli valdesi tra storia, teologia, politica e culturaPedagogie protestanti. Dalla persona ideata alla cittadinanza costruita e Le “Istruzioni” di Giosuè Gianavello.

Sguardi sulla Palestina