1. La decisione del Consiglio di Guerra israeliano di occupare militarmente Gaza City con la prospettiva di deportare oltre un milione e mezzo di persone in grandi campi di concentramento, anche in diversi paesi africani, costituisce una svolta forse irreversibile del conflitto e impone una riconsiderazione non solo di tutti i rapporti militari ed economici con Israele, ma anche del regime giuridico, previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 sui territori occupati e sui diritti di difesa della popolazione civile, anche rispetto ai progetti di colonizzazione dell’intera Striscia.

La Quarta Convenzione di Ginevra e il primo Protocollo del 1977, riconoscono agli abitanti del territorio occupato la qualifica di «persone protette». L’art. 49, VI cpv. della citata Quarta Convenzione di Ginevra, vieta alla potenza occupante di «trasferire parte della propria popolazione civile in territorio occupato». Costituisce crimine di guerra, ai sensi dell’art. 8(2)(b)(viii) dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, il «trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati o la deportazione o il trasferimento di tutta o di parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di tale territorio».

Da crimini di guerra non può derivare il ripristino della pace e dell’ordine internazionale, ma solo il moltiplicarsi di conflitti e distruzioni. Gli Stati Uniti che con Trump sono schierati accanto a Netanyahu non hanno evidentemente appreso alcuna lezione dalla loro storia recente, dall’Iraq all’Afghanistan, e gli altri paesi occidentali sembrano incapaci di liberarsi dal giogo della potenza militare, ed economica, americana. All’invasione militare, dopo mesi e mesi di bombardamenti e uccisioni mirate di donne e bambini, seguirà una profonda inversione di senso nella narrazione di quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza, nei territori occupati della Cisgiordania, e nell’intero Stato di Israele.

Da oggi non si potrà più parlare, ammesso che sia stato possibile in passato, di diritto di difesa di Israele, ma si dovrà considerare, davanti a tutto, il diritto di difesa del Popolo palestinese. Finisce qui la tragica farsa di Israele come Stato democratico. Il 19 luglio dello scorso anno, nell’indifferenza generale, la Corte internazionale di giustizia ha condannato l’occupazione israeliana della Palestina, compresa Gerusalemme Est. Adesso non sarà più possibile escludere la configurabilità di uno stato di occupazione della Striscia di Gaza ai sensi dell’art. 42 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aia sulle leggi e gli usi della guerra terrestre.

2. Le norme sui conflitti armati internazionali proibiscono a una potenza occupante di utilizzare la forza armata contro un proprio territorio occupato. Per tutte le parti in conflitto si dovrà applicare il diritto umanitario internazionale in situazioni di guerra, con la tutela prioritaria della popolazione civile, ma anche con le garanzie che vanno riconosciute ai combattenti. La decisione di occupazione di Gaza assunta da Netanyahu allontana qualsiasi prospettiva di pace, legittima la resistenza armata, e soprattutto tende a rendere impraticabile la soluzione suggerita da anni dalle Nazioni Unite dei “due Stati” e del riconoscimento dello Stato di Palestina.

Con una vera e propria “soluzione finale”, con la morte di altre migliaia e migliaia di persone, e con la deportazione di massa, si mira ad eliminare quell’elemento costitutivo dello Stato che è la popolazione. Un vero e proprio annientamento di un popolo, che riporta alla memoria il periodo nazista, non per lavori forzati o attraverso l’eutanasia dei malati, ma con la fame di massa e il blocco delle cure mediche. Inoltre, con l’occupazione, verrà meno l’altro elemento costitutivo di uno stato, il territorio. Un obiettivo perseguito da anni da Israele, che ormai controlla, oltre ai territori occupati, la maggior parte della Striscia di Gaza, nella totale impunità garantita dalla comunità internazionale.

Per mesi, anche nel nostro paese, nessun esponente di governo ha raccolto gli appelli di pace, schierandosi sempre a ridosso di Israele, mentre l’Unione europea si è trovata divisa ed alla mercè delle piroette di Trump. Per questa ragione oggi è ancora più evidente la complicità di tutti quegli stati, come l’Italia, che, malgrado tardivi ripensamenti sul genocidio in corso, non hanno ancora riconosciuto lo Stato di Palestina, continuando a rifornire di armi l’esercito israeliano.

Oltre alle responsabilità dello Stato, sono configurabili anche responsabilità individuali. Come è stato recentemente denunciato, “i singoli membri del governo” se ritenuti “responsabili delle decisioni di continuare a trasferire le armi, potrebbero essere ritenuti penalmente responsabili, se si dimostra che erano consapevoli che la loro attività ha agevolato crimini internazionali”.

Il genocidio è attualmente punito in Italia dalla Legge n. 962/1967, adottata allo scopo di assicurare l’adeguamento dell’ordinamento interno alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948. Tra i casi di genocidio rientrano la sottoposizione di membri del gruppo a condizioni di vita tali da determinare la distruzione fisica, totale o parziale, di quest’ultimo (art. 1, co. 2) e la deportazione di membri del gruppo (art. 2).

Come è stato osservato, “la continuazione dell’esportazione di armi da guerra, componenti per armamenti pesanti, munizioni, sostanze ad alto potenziale esplosivo come il nitrato di ammonio, cordoni detonanti ed isotopi radioattivi, verso Israele da parte dell’Italia costituisce una violazione manifesta dell’obbligo di prevenzione del genocidio”. Si aggiunge che “non è necessario che lo Stato complice condivida l’intento genocidario, ossia l’intento di distruggere il gruppo protetto. È sufficiente che sia consapevole del rischio che il genocidio venga commesso e che fornisca un contributo che, anche indirettamente, rafforzi o faciliti l’azione dello Stato che commette atti genocidi”.

Non solo, ma “alla responsabilità dello Stato per complicità in atti genocidari, può affiancarsi anche una responsabilità penale individuale di funzionari pubblici e dirigenti privati, qualora abbiano contribuito alla commissione di crimini internazionali quali genocidio, crimini di guerra o crimini contro l’umanità”. Non sarebbe in astratto difficile, nel caso italiano, come in altri Stati europei, accertare tutte queste responsabilità fino ai livelli istituzionali più elevati.

Nel caso assai probabile in cui questo accertamento di responsabilità fosse impedito per ragioni di sicurezza nazionale, magari con l’apposizione del “segreto di Stato”, il lavoro di indagine dovrà procedere con determinazione ancora maggiore. La denuncia pubblica delle responsabilità e delle complicità, dovrà avere la stessa forza di una condanna in sede giurisdizionale, almeno sotto il profilo del ritorno al principio di realtà, contro tutte le mistificazioni e le dichiarazioni, ipocrite o mendaci, diffuse in questi tempi sul conflitto in Palestina. Ed anche sul piano della giurisdizione nazionale dovrebbero essere perseguiti gli autori dei crimini contro l’umanità commessi in territorio palestinese, con procedimenti che potrebbero svelare tutte le complicità nascoste.

3. Il riconoscimento dello Stato di Palestina adesso potrebbe diventare meramente simbolico in un contesto di sistematica devastazione del territorio e di distruzione di tutte le infrastrutture civili, con il completo abbattimento del sistema di garanzie delle popolazioni civili imposto dal diritto internazionale, fino alla pratica quotidiana del genocidio per fame ed assenza di cure. Per effetto dell‘occupazione militare di Gaza, la popolazione civile sarà ancora più esposta all’alternativa di morire d’inedia o sotto il fuoco delle armi dell’esercito israeliano e dei contractor che lo affiancano.

Persino gli aiuti lanciati dal cielo stanno diventando occasione di morte per i colpi dei cecchini, se non per schiacciamento sotto le grandi piattaforme rigide che vengono paracadutate. Tutto questo non potrà mai essere giustificato con il diritto all’autodifesa o con la necessità di liberare ostaggi, che il governo israeliano sta abbandonando al loro destino.

Il vero obiettivo di Netanyahu è oggi costituito dalla identificazione di tutti gli abitanti di Gaza, persino donne, bambini e malati, come parte di una resistenza armata, in modo da legittimare pratiche ancora più atroci di eliminazione fisica. Intanto in Cisgiordania procede inarrestabile la pulizia etnica e la cancellazione quotidiana della dignità umana della popolazione araba residente in quei territori. Ovunque potrebbe moltiplicarsi il ricorso ad azioni di guerriglia. Ma la distinzione tra popolazione civile e milizie armate, alla base del diritto umanitario internazionale, deve rimanere salda anche in caso di conflitti in una zona occupata, e chi la disconosce si macchia di un crimine di guerra.

La partita sempre più sporca che si sta giocando sulla pelle degli ostaggi a Gaza non potrà permettere alcuna riabilitazione del governo israeliano che oggi antepone alla loro vita le esigenze politiche di Netanyahu e dei suoi ministri. L’Italia che fece una guerra di resistenza all’occupazione tedesca, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, non può essere complice di crimini di guerra commessi impunemente ai danni della popolazione civile.

Il principio di autodifesa non potrà essere applicato ad Israele, potenza occupante, ma semmai allo Stato di Palestina occupato, nel rispetto dei criteri di necessità e proporzionalità. Il diritto internazionale deve essere ripristinato per tutti, e nel passaggio dallo stato di guerra alla tregua, e poi alla pace, è fondamentale che questo principio valga contemporaneamente sia nella Striscia di Gaza che in territorio israeliano ed in Cisgiordania.

Appare assai difficile, comunque, pensare che forme diverse di resistenza armata possano comportare oggi la liberazione della Striscia di Gaza, o il ripristino dei confini del 1967. Occorre invece, per raggiungere questi obiettivi, costruire pratiche di resistenza non violenta attraverso la solidarietà internazionale, con una crescente pressione sui governi occidentali, con un recupero del multilateralismo e dell’ONU, e con azioni dirette dall’estero, come la Freedom Flotilla, perchè quello che succede a Gaza ed in tutta la Palestina, oltre alle vittime palestinesi, condanna a politiche di morte le società nelle quali viviamo. A partire dall’esplosione della spesa pubblica per le armi e la sicurezza, e la sua ricaduta sulla spesa sociale. Per non parlare degli effetti devastanti dell’assuefazione a violazioni dei diritti umani sempre più gravi, che sarebbero giustificate dalla logica della guerra. Ma che ci riportano all’epoca degli Stati autoritari, nazionalisti, e della violazione sistematica del diritto internazionale.

4. Sono 147 i paesi nel mondo, tre quarti dei paesi membri dell’ ONU, che hanno riconosciuto lo stato di Palestina. Come da tempo numerose risoluzione delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali hanno condannato le violazioni commesse da Israele. L’occupazione di Gaza si configura dunque come un’invasione di territorio da parte di uno stato straniero e, al di là dell’intento genocidario sul quale dovrà pronunciarsi la giustizia internazionale, produrrà la moltiplicazione degli scontri armati e delle vittime civili. Perchè tutta Gaza potrebbe diventare un campo di combattimento, strada per strada. E in Cisgiordania gli scontri potrebbero deflagrare anche a fronte delle crescenti violenze dei coloni, malgrado già nel 2016 il Consiglio di Sicurezza ONU, nella risoluzione n. 2334, avesse condannato la costruzione e l’espansione degli insediamenti e le correlate «confische, demolizioni di abitazioni e sgomberi» di civili Palestinesi susseguitesi negli anni.

Oggi l’occupazione militare della Striscia di Gaza si configura come il più grave atto di aggressione mai compiuto da Israele ai danni del popolo Palestinese. Di fronte a questo atto, nei limiti stabiliti dal diritto internazionale, si potranno verificare pratiche diverse di resistenza, previste pure dal diritto internazionale in caso di occupazione militare, ma se resteranno all’interno della Striscia di Gaza e dei Territori occupati, non avranno alcuna possibilità di successo, e potrebbero aggravare ulteriormente le condizioni già disperate della popolazione civile. Sul piano dell’informazione dominante e del consenso internazionale, anzi, potrebbero avere effetti propagandistici a favore dello Stato di Israele.

Per bloccare questa strage infinita, per riaprire spiragli alla pace, occorre estendere la pratica della solidarietà internazionale nei confronti della popolazione di Gaza, ripristinare il diritto internazionale con il riconoscimento immediato dello Stato di Palestina e del diritto all’autodeterminazione del suo popolo, con sanzioni, fino all’interruzione dei rapporti diplomatici ed economici con Israele, fino a quando non accetterà le risoluzioni delle Nazioni Unite ed i verdetti di condanna della Giustizia internazionale.

Sarà anche necessario rimuovere da subito i blocchi ai valichi di frontiera ed il blocco navale. il Comitato Internazionale della Croce Rossa, fin dal 2010 denunciava l’impossibilità di fronteggiare la situazione disperata di Gaza tramite aiuti umanitari, sottolineando come l’unica soluzione sostenibile fosse la rimozione del blocco. Sono anni e anni ormai che a pagare le conseguenze delle politiche di embargo è stata soprattutto la popolazione civile, ingiustamente colpita e sottoposta a gravi privazioni per atti commessi da terzi, in violazione dell’art.33 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 che proibisce punizioni collettive (Report 2013, par. 22).

Non si può accettare che la guerra legittimi la guerra, come se il diritto internazionale fosse ormai un ostacolo superabile da parte degli Stati più forti militarmente ed economicamente, sorretti dai grandi gruppi economici che controllano tecnologia e comunicazioni su scala globale. Una convergenza di interessi mortali che si ritrova non solo all’interno dei progetti sulla Striscia di Gaza, ma che trova conferma nella ridefinizione della divisione dei poteri nel mondo.

Se come sembra si arriverà ad una occupazione militare con l’invasione della Striscia, oltre alla carneficina di massa che si prospetta, sembra scontata una intensificazione degli scontri in tutto lo Stato di Israele tra nazionalisti e minoranze arabe israeliane, con attacchi che potrebbero estendersi in tutto il mondo, mentre a Gaza si continuerà a morire non solo di fame e per fame, ma anche per la mancanza di cure mediche per oltre 160.000 feriti, ad oggi, e tante altre migliaia in futuro.

Senza una immediata ripresa degli aiuti umanitari, con la completa cessazione del fuoco, e con l’avvio di un vero negoziato di pace, la “soluzione finale” che si prospetta per Gaza, con l’occupazione militare e la deportazione forzata di gran parte della sua popolazione, addirittura in Libia o in Eritrea, sostituendo il diritto della forza alla forza del diritto, non solo porterebbe ad una guerra civile di dimensioni incontrollabili, ma potrebbe avere effetti devastanti ben oltre i territori che Israele ha già occupato o che si appresta ad occupare.

La guerra in Palestina, ancora di più dopo l’occupazione della Striscia di Gaza, ribalterà i rapporti di forza non solo nell’intero scacchiere medio-orientale, ma su scala molto più ampia. Per quanto riguarda le forze che guardano alla pace, alla giustizia sociale ed al dialogo tra i popoli, costringerà a ridefinire i termini dell’opposizione al capitalismo globale, e dunque all’internazionale nera ed al bellicismo che ne costituiscono strumento.

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