La sentenza del Tribunale di Palermo, con la quale a dicembre dello scorso anno il senatore Salvini veniva assolto nel processo Open Arms “perché il fatto non sussiste” , nelle motivazioni pubblicate a maggio, presenta diversi passaggi critici che vanno attentamente considerati, non soltanto per valutare eventuali profili di appello, sui quali dovranno esprimersi la procura di Palermo e le parti civili costituite, ma anche per verificare la legittimità di prassi operative tuttora seguite dalle autorità italiane nella gestione dei soccorsi in acque internazionali, con riferimento ad una interpretazione delle fonti normative, o a una valutazione di circostanze di fatto, che si ritrovano anche nella sentenza dei giudici di Palermo, con una angolazione affatto diversa rispetto ad altre sentenze che hanno affrontato gli stessi temi.
L’intero ragionamento del collegio giudicante di Palermo, come è stato già rilevato, sembra basarsi su una considerazione preponderante della prima fase delle operazioni di soccorso, quella anteriore alla pronuncia cautelare del TAR Lazio che il 14 agosto 2019 sospendeva il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane adottato da Salvini, allora a capo del Viminale, subito dopo il primo dei tre eventi di soccorso nei quali la Open Arms si era trovata ad operare. Come se la valutazione del comportamento del ministro, anteriore alla pronuncia del TAR, quando ancora la nave si trovava in acque internazionali, potesse non tanto legittimare il divieto di ingresso nelle acque territoriali, quanto piuttosto escludere l’obbligo di concessione del porto di sbarco sicuro (POS).
Il motivo assorbente che porta all’assoluzione, la mancanza di un obbligo dell’Italia, e dunque del ministro dell’interno, di concedere alla Open Arms un POS , basato sulla formulazione letterale in lingua inglese delle Linee guida stabilite dal Comitato esecutivo (MSC) dell’IMO (Organizzazione internazionale del mare), al di là dei rilievi critici già formulati dalla dottrina, sembra consentire ai giudici di accantonare altre considerazioni di fatto e di diritto pure ritenute dalla sentenza, che avrebbero potuto avere un notevole rilievo proprio nella individuazione degli obblighi di ricerca e salvataggio (SAR) in capo agli agenti istituzionali ed ai vertici politici.
Per questa ragione la lettura delle motivazioni va approfondita in tutti i diversi passaggi che le caratterizzano, al di là della formula condizionale adottata nelle Linee guida dell’IMO che, se anche potesse ridurle al rango di mere “raccomandazioni”, non può intaccare la complessiva portata vincolante delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, e della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati che ne costituisce, anche per la giurisprudenza italiana, necessario complemento. Non si può condividere dunque l’interpretazione che tende a collocare i soccorsi operati dalle navi del soccorso civile in una area grigia, di dubbia applicazione del diritto internazionale, nella quale prevarrebbero decisioni discrezionali di autorità politiche, quasi al di fuori dei controlli giurisdizionali operati a livello interno, o alla stregua del diritto euro-unitario.
Anche se le navi delle ONG operano attività di soccorso in maniera non occasionale, e percorrono rotte che non sono definibili in anticipo, proprio per le peculiari funzioni di ricerca e salvataggio che perseguono, non si può escludere che nei loro confronti gli Stati, ed i competenti ministri abbiano gli stessi obblighi, inclusa l’assegnazione del porto sicuro di sbarco (POS), che sono previsti a livello generale dalle Convenzioni internazionali per tutte le navi di soccorso.
In materia non esistono norme derogatorie con specifico riguardo alle ONG né a livello europeo né tanto meno nel diritto internazionale del mare, ed i tentativi del legislatore italiano di prevedere una disciplina specifica degli obblighi di soccorso, dopo il Codice di condotta Minniti del 2017, quindi dal decreto sicurezza bis n.53 del 2019, fino al decreto Piantedosi (legge n.15/2023), hanno riguardato le attività SAR poste in essere dalle navi umanitarie della flotta civile, ma non hanno inciso sugli obblighi fissati dalle Convenzioni internazionali, dal Codice della Navigazione e dai Piani Sar nazionali, a carico degli Stati e delle competenti autorità. Obblighi che non potevano certo ridursi per effetto di tavoli tecnici ministeriali, o di decisioni autonome di singoli ministri sotto forma di decreti o direttive.
Leggendo le 274 pagine della sentenza, ma i motivi della decisione si ritrovano soltanto da pag.145 in poi, una volta escluso il dovere di concedere il POS in capo all’Italia, e dunque al ministro dell’interno, non si riscontrano motivazioni in piena corrispondenza con i reati contestati dall’accusa, come emerge agevolmente da un confronto tra i capi di imputazione e le argomentazioni che hanno portato all’assoluzione. Sembra così avere avuto pieno successo il tentativo operato dalla difesa dell’imputato di spostare l’asse centrale del processo verso il periodo anteriore a quello, dal 14 al 21 agosto, nel quale si erano svolti i fatti oggetto di contestazione da parte della Procura di Agrigento, tanto da insistere su presunte inadempienze del comandante della nave rispetto alle regole dei soccorsi in mare, in modo da legittimare i reiterati rifiuti di indicazione del porto di sbarco adottati dal ministro dell’interno.
Rifiuti della indicazione del POS che venivano motivati dal Viminale fino al 19 agosto (da ultimo con nota della vice-capo di gabinetto), con il richiamo alla tesi della competenza primaria dello Stato (la Libia) titolare della zona SAR nella quale si erano svolti i soccorsi, o dello Stato di bandiera (flagstate), dunque la Spagna, come autorità marittima nazionale competente per il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) ed addirittura per la indicazione, nel proprio territorio, del porto sicuro di sbarco, anche se a notevole distanza dal luogo nel quale erano stati operati i soccorsi.
Il comandante della Open Arms, dunque non avrebbe rispettato le indicazioni che sarebbero giunte (invero con molto ritardo) dalle autorità spagnole e per questa ragione nessun obbligo poteva incombere sulle autorità italiane quanto alla indicazione del POS. Secondo la sentenza però, e qui già si riscontra una contraddizione, «In base all’istruttoria svolta non soltanto non è emerso alcun elemento dotato di una minima suggestività di un collegamento tra Pro Activa Open Arm e le organizzazioni dedite al favoreggiamento del flusso migratorio clandestino via mare, ma soprattutto risulta che l’Ong abbia agito all’interno del perimetro normativo delle convenzioni internazionali, avendo il comandante salvato donne, uomini e bambini che si trovavano in alto mare, a bordo di imbarcazioni precarie e in imminente pericolo di vita, così adempiendo agli obblighi imposti dalle convenzioni Unclos e Solas».
Di converso le motivazioni dei giudici palermitani sembrano mettere in rilievo diversi profili di illegittimità del decreto interministeriale con il quale, subito dopo il primo soccorso operato in acque internazionali il primo agosto 2019, le autorità italiane vietavano l’ingresso della nave nelle nostre acque territoriali sulla base di circostanze che non hanno trovato riscontro nel corso del processo.
Malgrado il riconoscimento della correttezza dell’operato del comandante della Open Arms, i giudici palermitani non sembrano considerare come vincolanti i principi di diritto affermati in materia di soccorsi in mare e assegnazione del porto di sbarco dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza n.6626/2020 sul caso Rackete, principi ribaditi nei numerosi decreti di archiviazione dei procedimenti penali intentati contro i comandanti di navi delle ONG Centore e Marrone, nello stesso periodo di vigenza del Decreto sicurezza bis n.53/2019.
Per la Corte di Cassazione, che respingeva il ricorso della Procura di Agrigento, tra le altre argomentazioni che affermavano la ricorrenza di una causa di giustificazione nel comportamento della comandante Rackete che si ormeggiava al molo di Lampedusa malgrado i divieti provenienti dalle autorità politiche e le operazioni di interposizione poste in essere da una motovedetta della Guardia di finanza, “La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata.
In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS-Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la L. n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la L. n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla L. n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza”.
Dopo avere richiamato questo quadro normativo, la Corte afferma che “Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui all’articolo 10 Cost., comma 1 – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della (OMISSIS), in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente.
Né si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).
Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: “Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare.
La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.
Il mancato coordinamento tra autorità responsabili di zone SAR confinanti, la conclamata incapacità di alcuni Stati costieri, come Malta, di garantire tempestivi interventi di soccorso e una rapida individuazione di un porto sicuro di sbarco, la classificazione degli eventi di soccorso come “eventi migratori” da tracciare senza intervenire immediatamente, come se si trattasse di tentativi di immigrazione “clandestina”, sono questioni attuali e rientrano nel conflitto ancora irrisolto tra l’attuale governo italiano, la Commissione europea, e gli Stati di bandiera delle navi delle odiate ONG.
Esse suppliscono con la loro attività SAR al ritiro delle unità militari prima presenti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Ancora oggi purtroppo gli obblighi di ricerca e salvataggio a carico delle autorità statali vengono variamente ridotti, o esclusi del tutto, in base ad accordi bilaterali di dubbia legittimità, a seconda che si tratti di dimostrare un maggior rigore nella “difesa dei confini”, sulla quale si sollecita anzi un ulteriore impegno dell’Unione Europea per esternalizzare le attività di contrasto, se non per bloccare lo sbarco a terra dei naufraghi, come avveniva fino al 2019.
Le previsioni delle Convenzioni internazionali di diritto del mare non possono essere interpretate sulla base di una considerazione riduttiva desunta da una singola Raccomandazione dell’Unione europea, o da una risoluzione parlamentare, ma hanno una portata vincolante che viene riconosciuta da tempo da una consolidata giurisprudenza. Secondo la sentenza di assoluzione, persino un atto sicuramente privo di carattere normativo, come una risoluzione del Parlamento europeo del 2023, o una Raccomandazione (2020/1365) della Commissione risalente al 2020 (p.194),“è illuminante nell’evidenziare la precarietà e la inaffidabilità del quadro normativo di riferimento – col quale però il Collegio è oggi chiamato a confrontarsi per giudicare dei gravi reati contestati all’imputato Salvini- nel regolare la (così definita) ‘nuova forma di operazioni di ricerca e soccorso’ di cui si sono fatte carico le ONG.
Negli stessi termini, critici rispetto al quadro normativo-istituzionale e propositivi in merito alla possibilità di riorganizzare la materia del soccorso in mare e investire di maggiori, e dirette, competenze gli organismi UE, si esprime la successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 13 luglio 2023 sulla necessità di un intervento dell’UE nelle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneо”.
Non si vede davvero come, alla luce di atti politici di indirizzo di organi dell’Unione europea, adottati dopo i fatti oggetto del procedimento penale, si possa interpretare in questa chiave riduttiva, al punto da metterne in discussione l’effetto vincolante, un quadro normativo di diritto internazionale tanto complesso, ed oggetto di una serie di pronunce giurisprudenziali, che non vengono neppure richiamate.
Si citano anzi (p. 212) le uniche pronunce di un Tribunale amministrativo (TAR Lazio 19 giugno 2023,n.10402), favorevole alla conferma dei provvedimenti di fermo amministrativo delle navi delle ONG dopo soccorsi effettuati in acque internazionali ricadenti nella cd. zona SAR “libica”, ma non si dà conto delle decine di pronunce adottate da Tribunali e Corti di appello che quegli stessi provvedimenti di fermo amministrativo hanno sospeso o annullato, proprio in forza delle Convenzioni internazionali alle quali i giudici del Tribunale di Palermo non riconoscono effetto vincolante.
In ogni caso non appare corretto fondare una decisione in sede penale su fatti risalenti al 2019, sulla base di pronunce adottate quattro anni dopo da un Tribunale amministrativo che doveva applicare una normativa nazionale che non era neppure esistente al tempo dei fatti contestati all’imputato.
Non si vede come si possa parlare di “vaghezza” della fonte normativa internazionale quando il Regolamento europeo Frontex n.656/2014 richiama con carattere indubbiamente cogente le previsioni delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che in parte riproduce, in relazione anche alla doverosa interpretazione che va coordinata con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e in particolare con il divieto di respingimento affermato dall’art.33 della stessa Convenzione. Un Regolamento europeo, a differenza delle Raccomandazioni della Commissione o delle Risoluzioni parlamentari, è di diretta applicazione nell’ordinamento interno e non consente al giudice alcuna valutazione sulla “vaghezza” delle sue disposizioni, e delle Convenzioni che richiama, con disposizioni che appaiono precise e cogenti.
Obblighi precisi di ricerca e salvataggio, e correlati doveri di indicazione di un porto di sbarco sicuro, da parte degli Stati e delle competenti autorità, vengono individuati nella recente Ordinanza 7 marzo 2025, n. 5992 della Corte di Cassazione che con le Sezioni Unite civili, ha accolto la richiesta di risarcimento danni per ingiusta privazione della libertà personale, avanzata da 41 naufraghi provenienti dall’Eritrea, che si trovavano a bordo della nave della Guardia Costiera “Diciotti” che nel 2018 venivano trattenuti a bordo dal 16 al 25 agosto, prima di potere sbarcare nel porto di Catania. La Cassazione conclude affermando l’illegittimità del trattenimento dei naufraghi a bordo della nave Diciotti in assenza dei requisiti di legittimità fissati dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU, con una considerazione che, pur tenendo in conto la diversa natura della nave soccorritrice, una nave militare italiana e non una nave delle ONG, andrebbe presa in considerazione anche nelle successive eventuali fasi processuali del caso Open Arms.
Qualora nei successivi gradi di giudizio in appello e in Cassazione fosse definitivamente esclusa qualsiasi responsabilità penale, fatta sempre salva la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva, per il caso del trattenimento dei naufraghi soccorsi a bordo della Open Arms nell’agosto del 2019, potrebbe aprirsi il fronte dei risarcimenti del danno in sede civile.
L’esclusione di qualsiasi rilevanza penale della mancata indicazione del porto di sbarco sicuro da parte di una qualsiasi autorità statale che esercita una piena giurisdizione sulla nave soccorritrice, ormai entrata legittimamente nelle acque territoriali, per ragioni di salvataggio, rischia comunque di costituire un pericoloso precedente, in vista di prossimi interventi legislativi, anche a livello europeo, che saranno mirati a fornire una regolamentazione ancora più restrittiva delle attività di ricerca e salvataggio operate dalle navi del soccorso civile.










